Dopo circa 70 anni in cui aveva rappresentato la realtà attorno a sé, il Cinema, grazie ad artisti come Federico Fellini e Jean Luc Goddard, cominciò a parlare di se stesso, raccontando al pubblico il mondo che si celava dietro la macchina da presa.
Era nato il metacinema che ha prodotto opere impegnate, come L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov e altre destinate al grande pubblico, come la saga di Scream di Wes Craven. Un particolare esperimento di metacinema è, anche, l’ultima pellicola diretta e sceneggiata da Quentin Tarantino, per la fotografia di Robert Richardson (L’uomo che sussurrava ai cavalli, Shutter Island) e la scenografia di Barbara Ling (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, Batman e Robin) e i costumi di Arianne Phillips (Hedwig – La diva con qualcosa in più, Animali notturni)
Nella Hollywood di fine anni ’60, la star televisiva in declino Rick Dalton (Leonardo di Caprio) tenta, aiutato dall’amico e stuntman personale Cliff Booth (Brad Pitt), di risalire la china, mentre attorno a loro si consumano le vicende della setta di Charles Manson, dell’attrice Sharon Tate (Margot Robbie) e di suo marito, il regista Roman Polański (Rafał Zawierucha).
Nel suo nono film, Tarantino dà ampio spazio a tutti gli elementi ricorrenti del proprio stile, tra piedi femminili (puliti o meno) in perenne mostra, trunk shots a profusione e interminabili piani sequenza (Pitt ci mette tipo un giorno per attraversare i 100 metri che lo separano dalla casa degli hippies alla sua auto) senza stavolta però citare (o copiare a seconda dei gusti) altri autori ma pescando a piene mani nella propria filmografia (quindi forse copiando due volte) tra opere come The hateful eight, Jackie Brown, e, soprattutto, Bastardi senza gloria.
Il regista di Knoxville crea, all’interno di una Hollywood fin troppo patinata e idilliaca (in certi momenti ci sembra di essere sul set di Happy Days) una sorta di “bolla meta-cinematografica” in cui vivono i suoi protagonisti immaginari che nel corso della narrazione si gonfia sempre di più fino a inglobare la realtà filmica. Se all’inizio Dalton dialoga con un attore (il mitico Al Pacino) che interpreta il produttore, realmente esistito, Marvin Schwartz, a metà film lo troviamo, invece, inserito digitalmente in una famosa sequenza de La grande fuga e alla fine addirittura protagonista di fatti realmente accaduti.
Questa idea di mescolare finzione e realtà in progressione geometrica si dimostra certamente intrigante e raggiunge il massimo della perfezione e dell’illusione nella scena in cui Di Caprio interpreta il baffuto villain di una serie western, ma la resa complessiva è guastata, oltre che da un finale riciclato e prevedibile, dalla consueta lentezza narrativa (che ci frega di vedere fino all’ultimo fotogramma Booth che da mangiare al cane o Sharon Tate che traccheggia con la cassiera per entrare gratis al cinema?), da dialoghi più noiosi e inutili del foglietto delle istruzioni dell’aspirina e da una colonna sonora, costituita da brani d’epoca come Mrs Robinson di Simon & Garfunkel di o Hush dei Deep Purple, remixati e inseriti alla meno peggio. Ma la critica maggiore che si può muovere al ribelle di Hollywood è quella di aver realizzato una nemmeno troppo velata esaltazione dell’American way degna di un film di Frank Capra, in cui il paradisiaco mondo di celluloide è riservato a chi ha talento e lavora sodo e dove gli stranieri (clamorose e anche dozzinali le prese in giro di Bruce Lee, del Cinema Italiano e dello stesso Polański) non saranno mai all’altezza dei “solidi” personaggi a stelle e strisce. Tra il cast, se Brad Pitt non fa altro che togliersi l’uniforme e indossare (non senza ammiccare al pubblico femminile) sgargianti camicie hawaiane per riproporci un personaggio alla Aldo Raine, è molto brava Margot Robbie nel rappresentare una Sharon Tate solare e innocente mentre è semplicemente eccezionale Leonardo Di Caprio nel ruolo di una ex star in lotta con la propria sindrome di Peter Pan a cui il proprio stuntman fa praticamente da padre.
Tarantino ha detto che questo potrebbe essere il suo ultimo film. Fossi in lui non sarei così drastico ma certamente le idee latitano. E parecchio.
Andrea Persi.