Non-nave, Trote della sabbia, Volti danzanti, Computer umani. Questi e altri termini bizzarri e ossimorici, riassumo la saga creata nel 1965 dallo scrittore Frank Herbert e proseguita in tempi più recenti da suo figlio Brian e da Kevin J. Anderson. Un universo, unico, o quasi, nel suo genere, in cui tecnologia, magia, ragione e fanatismo religioso, convivono e confliggono e che torna oggi sullo schermo, per la regia di Denis Villeneuve e con un cast d’eccezione, ben 37 anni dopo il visionario film di David Lynch e circa 20 le due miniserie del 2000 e 2003.

Nell’anno 10191, la sostanza più preziosa nell’Universo Conosciuto è la Spezia, una droga che allunga la vita, fornisce capacità mentali sovrumane e rende possibili i viaggi spaziali, che esiste solo sul remoto pianeta Arrakis, conosciuto anche come Dune. Il Duca Leto Atreides (Oscar Isaac) viene inviato su Arrakis per prenderne il controllo al posto del crudele rivale, il Barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e di suo nipote Rabban (Dave Bautista). Accompagnato dai fedeli Gurney (Josh Brolin) e Duncan (Jason Momoa), dall’amata Lady Jessica (Rebecca Ferguson) e dal giovane figlio Paul (Timothée Chalamet), sul quale la potente Sorellanza del Bene Gesserit sembra avere dei progetti, il Duca accetta la missione, pur sospettando un tranello dei suoi nemici, convinto di poter stringere un’alleanza con i Fremen, la misteriosa popolazione indigena di Arrakis.

Se a David Lynch si rimproverò di aver condensato in 135 minuti un romanzo di oltre 700 pagine, a Villeneuve, con le sue due ore e mezza, si può rimproverare l’esatto contrario per quella che è la trasposizione di circa metà dell’opera. Questo non certo per la durata in sé, visto che ormai siamo abituati a cinecomic di oltre tre ore, ma per aver confezionato un film lento, tecnicamente modesto (orripilante, in particolare, l’assordante sonoro), narrativamente piatto, oltre che pretenzioso (“Guardate come sono fico a rifare Dune”) costituito da scene senza senso o scontate più di un film di Neri Parenti.

Qualche esempio.

– Un tizio su un piedistallo urla frasi incomprensibili (sottotitolarne, no?), all’esercito imperiale.

 – Tra 8000 anni si continuerà a dipingere a olio e a imballare quadri di famiglia in casse di legno.

– Su un pianeta con 40 gradi di minima, alle persone sopravvissute al deserto si offre caffè caldo.

– il sesso del planetologo Liet-Kynes (interpretato da Max Von Sydow nel precedente film) viene cambiato da uomo a donna senza nessuna ragione.

– Uno dei buoni prima massacra 30 cattivi e poi, benché creduto morto, si rialza in piedi e ne fa fuori un’altra dozzina prima di spirare in maniera epica.

– I perfidi Harkonnen, sterminano i Fremen come se nulla fosse, ma rispettano le sacre palme e permettono, sempre su un pianeta deserto, che vengano perfino annaffiate con litrate d’acqua al giorno.

Ma le delusioni più grosse vengono dal fatto che Villeneuve tenga per sé, come un bambino egoista con i propri giocattoli più belli, i mitici vermi della sabbia (mostrati solo di sfuggita) e i viaggi spaziali resi possibili dalla Spezia (a cui Lynch dedicò una delle sequenze più celebri del suo film) e che, in modo quasi autolesionista, si ostini per tutto il film a mostrarci l’esito delle scene più importanti prima che avvengano attraverso le premonizioni del giovane Paul.

Si salva solamente il cast artistico, in particolare il protagonista Timothée Chalamet, il “cattivo” Stellan Skarsgård oltre ai comprimari Zendaya, Josh Brolin, Dave Bautista e Jason Momoa.

Più che un brutto film, un nulla scandito da un insopportabile frastuono di effetti sonori.

Andrea Persi

Eccovi il trailer in Italiano

Eccovi anche la colonna sonora di Hans Zimmer

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giubors
“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey
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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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