Uno dei segreti del successo della Disney è la modestia. Quando in quel di Burbank capiscono che c’è chi è più bravo di loro a fare qualcosa, smettono di provare ad imitarlo e lo comprano. È accaduto con la Pixar per l’animazione digitale e poi con la Lucasfilm per la fantascienza.
Però questo non significa che la casa di Topolino non abbia provato a creare qualcosa di suo come questo film, disponibile su Disney Plus, uscito nei cinema del 1979( quando Geoge Lucas dopo aver stupito il mondo con Episodio IV: una nuova speranza si preparava bissare il successo ottenuto con L’Impero colpisce ancora) e diretto da Gary Nelson (Tutto accadde un venerdì, Gli avventurieri della città perduta) per la sceneggiatura di Jeb Rosebrook e Gerry Day, la fotografia di Frank V. Phillips (Pomi d’ottone e manici di scopa, La gang della spider rossa), gli effetti speciali curati dal team composto da Art Cruickshank, Eustace Lycett, Danny Lee, Peter Ellenshaw, Harrison Ellenshaw, Joe Hale e le musiche del 5 volte premio Oscar John Barry (Nata Libera e il celebre tema musicale di 007).
Durante il viaggio di ritorno verso la Terra l’equipaggio della USS Palomino, composto dal comandante Dan Holland (Robert Forster), il primo ufficiale Charles Pizer (Joseph Bottoms), il giornalista Harry Booth (Ernest Borgnine), gli scienziati Alex Durant (Anthony Perkins) e Kate McCrae (Yvette Mimieux) e il robot V.I.N.C.E.N.T., si imbatte in un gigantesco buco nero, attorno al quale orbita l’astronave USS Cignus, scomparsa vent’anni prima, il cui unico sopravvissuto, il Dott. Hans Reinhardt (Maximilian Schell), vive con gruppo di robot da lui stesso creati. Ma ben presto, i cosmonauti della Palomino, si renderanno conto dell’ambiguità delle intenzioni dello scienziato.
Costato 20 milioni di dollari più 6 per la promozione (praticamente 3 volte Episodio 4 costatone 11) la pellicola ne incassò 36 divenendo il 21° film di maggior successo negli Stati Uniti nel 1979. Un risultato discreto che si rafforzò in seguito sul mercato home video e col crescente numero di fan degli anni successivi, ma certamente deludente, per le aspirazioni dei produttori di realizzare un’opera che rivaleggiasse con quella di Lucas, per una serie di ragioni tecniche e narrative. Se la colonna sonora di Barry appare coinvolgente e ispirata, soprattutto nei “main title” e nell’overture che accompagna le scene d’azione, gli effetti speciali (candidati all’Oscar assieme alla fotografia) sebbene notevoli per l’epoca (si pensi alla scena della pioggia di meteoriti) non riuscirono, ad eliminare la sensazione di artificiosità di una messa in scena prevalemente allestita in ambienti chiusi che alla fine risulta appena superiore a quella della serie classica di Star Trek, girata 13 anni prima. Discorso a parte per il fluttuante robottino Vincent, la cui pedante e quasi umana saccenza, lo fa amare (come nel mio caso) o detestare senza via di mezzo, rendendolo, nel bene o nel male, il vero protagonista della storia. Una storia che purtroppo si muove goffamente tra Battlestar Galactica (con sparatorie, fughe e inseguimenti) e 2001 – odissea nello spazio con velleitarie e contorte riflessioni metafisiche sul black hole come un passaggio sia materiale che spirituale verso altre realtà. Superfluo dire che, a differenza di Sir Alec Guinness nel ruolo di Obi Wan Kenobi, il cast di divi del film si muove a fatica e non certo per mancanza di impegno professionale in un racconto sviluppato in maniera incoerente (che ci sta a fare un giornalista su una nave spaziale????) e concluso in modo anche peggiore con un colpo di scena poco credibile e un epilogo spettacolare ma ancora più inverosimile, guidato dalla speranza di un sequel mai realizzato.
Con una sceneggiatura all’altezza dell’impegno tecnico profuso, poteva diventare un cult del cinema di fantascienza. Col tempo è divenuto invece un prodotto d’annata con un certo (considerevole) fascino.
Andrea Persi