Nei disaster movies non c’è migliore terapia familiare di una bella apocalisse globale. Nel demenziale (a sua insaputa) 2012 di Roland Emmerich, Johan Cusak riconquista gli affetti coniugali e figliali (risolvendo perfino i problemi di incontinenza della figlia minore) mentre l’avverarsi della profezia dei Maya spazza via la vita dal pianeta.

Invece, nel più serio Deep Impact di Mimi Leder, Téa Leoni mette a repentaglio la propria possibilità di sopravvivenza per riconciliarsi col padre Maximillian Schell. Ed ecco quindi la nostra bella famiglia disfunzionale anche nella pellicola diretta dall’ex stuntman Ric Roman Waugh (La fratellanza, Attacco al Potere 3), per la sceneggiatura di Chris Sparling (Buried – Sepolto, Dark Hall), la fotografia di Dana Gonzales (Criminal, Incarnate – non potrai più nasconderti) e le musiche di David Buckley (Jason Bourne, Papillon).

Mentre tutto il mondo è in trepidazione per il passaggio della cometa Clarke, l’ingegnere edile John Garrity (Gerard Butler) è più preoccupato di rimettere insieme i pezzi del suo matrimonio in crisi. E così quando si scopre che Clarke causerà l’estinzione del genere umano John tenterà l’impossibile per salvare la vita di sua moglie Allison (Morena Baccarin) e del figlio Nathan (Roger Dale Floyd).

A differenza di classici del passato (come Meteor di Ronald Neame) il film non si concentra sugli sforzi dei governi di evitare la catastrofe ma, come è in voga di recente, sulla storia di un piccolo gruppo di protagonisti che cerca di sopravvivere, cercando al tempo stesso di mantenere la propria umanità in un mondo in rapido disfacimento sia morale che materiale (pensiamo alla scena della coppia che da un passaggio a Nathan e Allison) ma dove c’è ancora bontà (vedi la sequenza del ragazzo di colore con cui viaggia brevemente John). Buona anche la trovata (palesemente ispirata al film della Leder) per spiegare come mai non ci sia resi conto subito della pericolosità della cometa che contribuisce ad arricchire il film di un ritmo adrenalinico, inconsueto per opere del genere, dove invece prevale l’ineluttabilità del conto alla rovescia verso la catastrofe. Immancabile qualche “trashata” qua è là, come l’idea dei bunker sotterranei per evitare i terremoti (boh?) e il personaggio del padre di Allison (interpretato da un semi-mummificato Scott Glenn che da vero veterano (non sappiamo di che guerra ma fa niente visto che gli Usa ne hanno sempre qualcuna in “cottura”) che si rifiuta di cercare la salvezza perché “quando il gioco si fa duro, lui non scappa” (E bella così!!!).

Un dignitoso e godibile action apocalittico, di cui si sentiva davvero il bisogno per dimenticare disastri presenti e quelli annunciati (come il prossimo film di Enrico Vanzina sul lockdown).

Andrea Persi

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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