Ne La spina del diavolo di Guillermo Del Toro, il personaggio di Casares spiega al piccolo Carlos, come la paura sia essenziale per alimentare le superstizioni popolari permettendo a credenze del tutto irrazionali di continuare a prosperare. Lo stesso ragionamento sviluppa Jean Jacques Annaud ne Il nome della rosa quando mette in conflitto la logica, laica se non pagana, di Guglielmo da Baskerville e la paura, perfettamente coerente con la fede cattolica, del diavolo. Ma se il regista francese mantenne ben distinti la sfera della ragione e quella della fede, De Toro, da buon regista del genere fantastico preferì sfumare i confini tra i due universi. E lo stesso ha fatto un maestro del nostro Cinema ossia Pupi Avati, di ritorno, 17 anni dopo il deludente Il nascondiglio, al genere che lo ha reso famoso tra il grande pubblico, con una pellicola, tratta da un proprio romanzo e sceneggiata assieme al fratello Antonio e al figlio Tommaso, per la fotografia di Cesare Bastelli e le musiche di  Amedeo Tommasi.

Alla vigilia delle cruciali elezioni politiche del 1952, Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice), grigio e disilluso funzionario del Ministero della Giustizia, riceve l’incarico di recarsi in Veneto per indagare sulla morte di Emilio (Lorenzo Salvatori), figlio della ricca e potente Clara Vestri Musy (Chiara Caselli) che sarebbe stato ucciso da un suo coetaneo (Filippo Franchini) perché ritenuto posseduto dal diavolo. Nel corso dell’inchiesta, Momentè dovrà misurarsi con ambigui personaggi e con una storia dai contorni sinistri e irrazionali.

Avati riprende molti dei temi del suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono tra cui l’ambientazione rurale, in cui una campagna veneta fredda e desolata sostituisce l’assolata e sonnacchiosa pianura padana, al protagonista insicuro di sé, ma morbosamente attratto dal mistero in cui si trova coinvolto che stavolta, però non riguarda divinità pagane ma un’interpretazione superstiziosa e primitiva di Dio e del diavolo secondo cui la diversità, specie se esteriore, corrisponde al Male e, anche grazie a volti storici della propria filmografia, quali i Alessandro Haber, Gianni Cavina, Andrea Roncato e lo stesso Lino Capolicchio, impiegati in ruoli minori, costruisce un giallo soprannaturale ricco di atmosfera anche se alquanto didascalico che viene riscattato solo in parte dal finale imprevisto.

Sostanzialmente una stimolante riflessione in chiave horror sulla natura del Male che, riprendendo un tema già presente ne L’arcano incantatore, ci mostra come l’Uomo spesso ne sia più complice che vittima.

 Andrea Persi  

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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