«Sono un circense prestato al cinema, figlio di Fausto Dell’Acqua e Giovanna Huesca, sorella del grande clown  Nené, indimenticabile stella del Circo Togni, artista mosso da una forza speciale che, avanti negli anni, ancora lo spingeva ad esibirsi al Medrano». Esordisce così Alberto Dell’Acqua. Con grande disponibilità accetta le nostre domande ed inizia a navigare nei ricordi, in quel mare sognante di immagini della memoria ed emozioni del cuore. Questa stella del cinema italiano, volto noto dello spaghetti-western, si porta ancora dentro tutta la grinta della gente del circo: «La mia famiglia negli anni della Seconda Guerra Mondiale aveva un suo circo, piuttosto grande, il Circo Impero che andò incontro ad un fallimento. Pian piano, associati con Leone Martini, si rimisero in gioco col Circo Demar e fu li che i miei fratelli ed io debuttammo».

Racconta che s’avviò alle esibizioni sotto il tendone da piccolissimo, seguendo i familiari e dedicandosi ad una pluralità di discipline: «Esordii come giocoliere in un numero di troupe con mio fratello Arnaldo e le mie sorelle Clara e Fernanda, diventate poi trapeziste. Anche gli altri miei sei fratelli e sorelle diventarono artisti nel nostro circo famigliare. I riscontri del pubblico erano eccezionali. Ricordo che nel 1961, con due numeri di troupe, fummo premiati come migliori giocolieri e ciclisti al Teatro Sistina con la Maschera D’Argento, in una serata in cui presenziavano attori di spicco come Liz Taylor e Richard Burton. Negli anni mi ero dedicato anche all’acrobatica, perfezionandomi come saltatore al tappeto elastico in coppia con mio fratello Roberto, in arte Ridolini. Eravamo una coppia molto affiatata, tanto che mettemmo su un altro fortunato numero di cascatori, ma ci dedicavamo ad ogni disciplina circense tanto che a Portogruaro con Roberto presentai anche un numero di anelli. Il nostro era un circo di famiglia e dovevamo adattarci a fare più numeri. Il cinema irruppe nella mia vita nel 1964, ma non sarei stato lontano dal circo. Nel 1977, infatti, tornato dalla Colombia dal mio ultimo film, mi riunii con la famiglia in un viaggio in roulotte raggiungendo la Calabria. Doveva essere una semplice vacanza, solo relax e divertimento al Campeggio “Le Mimose”, invece ci imbattemmo nei manifesti del Circo Royal dei miei cugini e il richiamo della segatura fu così forte che decidemmo di andare a trascorrere tre giorni con loro. Quei tre giorni divennero sette anni».

Ritrovò le sue radici. «Sì, in me ritornò la gioia di quando ero bambino. Ero nuovamente sotto un tendone, di nuovo al circo, di nuovo con la mia famiglia. I miei figli si integrarono perfettamente ed iniziai a fare loro da insegnate. Con qualche dritta e molto lavoro, in pochi mesi riuscirono ad esprimere ottime qualità artistiche. Nel frattempo, con mia moglie e mia sorella, ritornai alla giocoleria e mettemmo in piedi anche un numero di donna di pezza. Di quello spettacolo fui il presentatore. Negli anni mia figlia Doriana diventò una valente trapezista. Tredicenne si esibì a Londra riscuotendo n grandissimo successo. Lavorò al Robert Brothers Circus, dove c’era anche il mio grande cugino Gianni Fumagalli in coppia con suo fratello Daris. Tornati in Italia lavorammo al circo dei fratelli Huesca, anch’essi miei cugini, il Circo di Budapest che purtroppo, nei paraggi di Arezzo, esattamente a Camucia, frazione del comune di Cortona, fu travolto da un violento temporale. Finì tutto distrutto. Non posso negare che l’impatto di certi eventi sul morale di un circense è devastante, tuttavia ci rimboccammo le maniche e mettemmo su uno spettacolo divertente che si chiamava “Viva le risate”. Il litorale laziale rispose con grande partecipazione. Le nostre strade si divisero lì. I miei cugini sotto la direzione del Circo Medrano dei fratelli Casartelli raggiunsero la Grecia, mentre la mia famiglia ed io tornammo al  Royal Circus di Loris e Rudy Dell’Acqua. Rimanemmo li alcuni anni affinando e ritoccando i numeri di giocoleria e trapezio di mia figlia Doriana. Mentre Mio figlio Massimiliano si perfezionò con un numero di giocoleria con clave, pallone e scatole di sigari. Ne venne fuori un numero degno di Kris Cremo che stupiva letteralmente il pubblico. Progettavamo di aprire un nostro circo, ma, dopo aver comprato tutto il materiale, mia figlia sposò Massimo Carbonari e, alcuni mesi dopo, Massimiliano prese in moglie Debora Orfei, figlia del grande Amedeo. I miei nipoti rinnovano la grande tradizione di famiglia, Yasmin, la figlia di Massimiliano, per esempio, è una importante antipodista premiata con il Clown d’Argento al Festival di Montecarlo. Adesso le energie dei miei familiari sono tutte nel Circo Incanto, una formula fresca in bilico tra il classicismo dell’espressività circense e il teatro».

Parliamo di cinema adesso. Come nacque tutto? «Il mio passaggio al cinema lo devo ad un grande maestro d’armi, Freddy Unger. Fu lui a volermi stuntman per la prima volta in un lungometraggio dal titolo “I malamondo”, del 1964, prodotto dalla Titanus e musicato da Ennio Morricone. Avevo diciotto anni. Freddy mi prese a ben volere e quello stesso anno mi propose al regista Antonio Margheriti per la parte di Publio Valerio nel film “I giganti di Roma”, con Richard Harrison. Così mi si aprirono le porte del cinema. Ricordo che l’aiutoregista de “I malamondo”, Franco Giraldi, nel frattempo divenuto regista, l’anno dopo mi fece cercare tra la gente del circo da Alfio Caltapiano. Quando si venne a sapere grazie a Rinaldo Zamperla che ero col circo della mia famiglia alla Storta, un borgo di Roma, fui raggiunto da Giraldi con una proposta di provino per un western. Era il film “7 pistole per i MacGregor”. Andò tutto bene, gli piacqui e mi prese per il film che andammo a girare in Spagna».

Ricordo bene quel film… «Aspetta. Lì ebbi un primo serio incidente di lavoro. Mentre ero al galoppo con un piede in staffa, per girare una scena, si ruppe il sottopancia della sella, caddi sbattendo la testa e fui calpestato dai cavalli degli altri attori, cioè gli altri fratelli MacGregor. Uno di essi, Nazzareno Zamperla ,che condivideva con me la provenienza circense, si precipitò a soccorrermi, ma gli urlai di non toccarmi perché ero tutto rotto. Ricordo che corse verso di me Giraldi e tutta la troupe, restarono lì ad attendere l’ambulanza che poi mi condusse all’ospedale di Guadix,dove mi riscontrarono l’incrinatura di cinque costole e due fratture alla scatola cranica. Con un treno speciale mi trasferirono allora a Madrid alla “Clinica Vittoria” scoprirono che avevo pure la frattura di due vertebre della colonna cervicale. Mi legavano alla lettiera è dissero al produttore di sperare che la notte fosse passata senza problemi. Ringraziando Dio fu così. Dopo alcuni giorni m’ingessarono e fui trasferito a Roma in un centro di traumatologia della Garbatella. I medici mi tolsero il gesso fattomi a Madrid per farmene uno nuovo dalla testa al busto che portai per quattro mesi. Il film era stato sospeso fino alla mia guarigione e quando riprendemmo a girare, il primo giorno a Cinecittà, a parte i festeggiamenti di tutta la troupe, il regista Franco Giraldi, come terrorizzato, mi spiegò che non avrei cavalcato. Mi disse: “Vedi Alberto? Adesso gireremo la scena in cui tu sei a cavallo, ma in realtà sarai a cavallo su un trabattello e sembrerà che sei a cavallo”. Gli diedi il mio assenso, ma quando mi sono avvicinato al cavallo, salii in groppa e mi misi in posizione per girare. La  troupe mi acclamò. Girammo la scena senza problemi e portammo il film a termine».

Fortunatamente andò tutto bene, rischiò molto. Dei registi cosa mi dice? Ha citato Giraldi Margheriti. Che rapporto ha avuto con loro? «Con tutti ho avuto un rapporto professionale, naturale e senza problemi. Ho lavorato con Gianfranco Baldanello e Dario Baldi, con Mario Siciliano ho fatto tre film, “Trinità e Sartana figli di…”, “Quel pomeriggio maledetto” e “Alleluja e Sartana figli di… Dio”. Con un solo regista non mi sono trovato bene, è stato Giuseppe Colizzi. Con i registi ti confronti sempre per dare lustro al personaggio che devi interpretare, per conferirgli maggiore profondità. Tutto questo è molto importante, è gratificante per l’attore perché l’aiuta ad esprimersi al meglio. Per esempio, nel film “Texas Addio”, prodotto dal grande Manolo Bolognini e diretto dal professor Baldi nel 1966 con Franco Nero ed Elisa Montes, ho avuto modo d’interpretare un personaggio che mi ha dato tante soddisfazioni, il pistolero Jim Sullivan. Posso dire lo stesso anche per “Ammazzali tutti e torna solo” di Enzo Girolami Castellari».

Mi riveli poi una curiosità sulla lingua usata. Ha girato pellicole in Spagna, in Colombia, in Turchia e con artisti di svariate nazionalità. In che lingua recitava? «In alcuni film ho usato l’inglese come in “I lunghi giorni dell’odio” e in “Il figlio di Sandokan”, ma in generale sul set si recita ogni uno nella sua lingua. Così è stato anche in Turchia dove ho interpretato tre film d’azione da protagonista, con bravi attori turchi. In uno dei tre mi si ruppe, tra l’altro, un polso facendo un salto mortale in piroette. Ho anche girato due film d’avventura in Colombia e in uno di essi sono uscito da un bilancio e mi sono seduto sull’altra, sensazione meravigliosa a mille metri d’altezza».

A proposito di queste riprese d’azione, la ritengo, soprattutto per quanto riguarda gli spaghetti-western, una figura molto più importante di quanto si possa immaginare. A riprova di ciò c’è il fatto che in tutti i film, anche quando non aveva ruoli da protagonista, la sua presenza era caratterizzante, era un marchio, diveniva un elemento di distinzione dell’intera pellicola. Come se il regista subisse il fascino delle sue doti acrobatiche. In tutti i film c’è sempre la scena del salto o della capriola, il momento più dinamico, la sequenza più vivace. Lei è un attore che ha lasciato il segno perchè sai che quando c’è un film con Alberto Dell’Acqua troverai determinate caratteristiche.  «Per quanto concerne le scene d’azione, Castellari è davvero un grande regista, forse perché anche lui era stato un atleta. Ho fatto undici western, di cui due da protagonista “Trinità e Sartana figli di…” e “Alleluja e Sartana figli di… Dio” e sì, in effetti in tutti emergono le mie doti acrobatiche. Le scene d’azione nei film da me interpretati le inventavamo io e il mio maestro d’armi, Freddi Unger anzitutto, Nazzareno Zamperla, con cui ho fatto tre film western, e poi  Nando Poggi, a cui ero legatissimo e che ho voluto con me in sei film. Un grande uomo oltre che maestro d’armi. Ho realizzato anche un paio di pellicole in cui faccio l’artista circense come in “La collina degli stivali”. Trovo ben riusciti anche i polizieschi “Il braccio violento della mala”, dove sono protagonista, “Quel pomeriggio maledetto”, con Lee Van Cleef, ed il simpaticissimo “Il figlio di Zorro”, con Fernando Sancho».

Alla fine di questa lunga chiacchierata se dovessi chiederle di scegliere tra cinema e circo, cosa mi risponderebbe? «E’ una domanda che mi mette in difficoltà. Il cinema mi ha dato molta notorietà e denaro. Mi ha permesso di girare il mondo, ma il mio amore per lo spettacolo si chiama circo. Ciò che ho vissuto, ciò che ho conosciuto e che ancora oggi traggo dalla vita del circo è un sentimento completo e per molti aspetti difficile da comunicare. E anche oggi, con una età ed i suoi acciacchi, vivo il circo attraverso i miei figli e i miei nipoti, protagonisti del bellissimo spettacolo del Circo Incanto».

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Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.

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