Nel suo ultimo film C’era una volta a Hollywood, che il prossimo 9 febbraio concorrerà per gli Oscar, Quentin Tarantino racconta una sorta di fiaba patinata del mondo del Cinema, in cui tutti sono belli (ovvio) e buoni, specie se maschi e americani che suona tanto come una celebrazione un po’ ruffiana di uno star system in realtà fatto di luci e ombre, quest’ultime spesso molto profonde, come quelle che hanno costellato la vita di una delle più grandi (e sfortunate) star degli anni ’30 e ‘40 ovvero Judy Garland, la cui storia viene ora portata sullo schermo nel biopic, tratto dall’opera teatrale End of the Rainbow, diretto da Rupert Goold (True Story), per la sceneggiatura di Tom Edge (la serie Netflix The Crown) la fotografia di Ole Bratt Birkeland (American Animals) e le musiche di Gabriel Yared (1408, È solo la fine del mondo).
Nella seconda metà degli anni ’60 l’ormai quarantenne Judy Garland (Renée Zellweger) attraversa un difficile momento della propria carriera artistica. La possibilità di riscatto che offertale da una tournée a Londra, sarà però messa in pericolo dai fantasmi del suo passato.
Tra flashback e narrazione lineare, il film racconta la progressiva e sempre più drammatica assuefazione di una ragazza di campagna alle luci della ribalta, emblematica di questo momento di passaggio la scena della cerimonia degli Oscar del 1940, che, inizialmente viene quasi seviziata dallo star system salvo poi ritrovarsi, da donna matura, incapace di poterne fare a meno, al punto vedere naufragare tutti i propri rapporti interpersonali sia con gli uomini che con i figli. Una personalità fragile, ma allo stesso tempo indomita nella battaglia per recuperare l’unico genere di amore, quello del pubblico, che l’abbia mai completamente appagata che sembra proporre allo spettatore, mentre questi s’interroga dove finisca la diva e cominci la persona reale, il dilemma, così simile a quello posto da Scorsese in Shutter Island, se sia meglio votarsi totalmente a un successo famelico o accettare di vivere nella mediocrità dell’anonimato.
Semplicemente strepitosa l’interpretazione di Renée Zellweger, che regge su di sé le sorti dell’intera pellicola, la quale dei per sé non presenta grandi intuizioni tecniche o narrative grazie a proprio talento, e che meritatamente è in prima fila per la conquista dell’Oscar come migliore attrice protagonista.
Crudo, commovente e anche ironico ritratto del crepuscolo di una vera icona del Cinema.
Andrea Persi