“Oh babbo mio! se tu fossi qui! E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”.
Questo macabro finale non è l’epilogo di un racconto di Edgar Allan Poe o di Stephen King ma la conclusione della prima stesura di Pinocchio pubblicata a puntate nel lontano 1881 sul periodico il Giornale per bambini. Ma Carlo Collodi, probabilmente convinto che il miglior modo per educare i bambini della sua epoca e essere buoni, fosse quello di spaventarli, fu costretto, similmente ad Arthur Conan Doyle quando nel 1893 osò “uccidere” il suo Sherlock Holmes, a tornare sui propri passi e a modificare la storia, regalandoci così il capolavoro mondiale che tutti conosciamo e che oggi torna al Cinema per la regia di Matteo Garrone, la sceneggiatura dello stesso Garrone e dell’attore Massimo Ceccherini, la fotografia di Nicolaj Brüel (Dogman, 5 è il numero perfetto) e le musiche di Dario Marianelli (Everest, Kubo e la spada magica).
Il poverissimo falegname Geppetto (Roberto Benigni) costruisce una marionetta che magicamente si anima, a cui da il nome di Pinocchio (Federico Ielapi) e che prende con sé come figlio. Ma Pinocchio, disobbediente e desideroso di scoprire il mondo, si da presto alla fuga incontrando personaggi pericolosi come Mangiafuoco (Gigi Proietti), il gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini), ma anche amici sinceri come il Grillo Parlante (Mario Marotta) e la Fata Turchina (Alida Baldari Calabria\Marine Vatch) la quale, forse, potrà esaudire il suo più grande desiderio.
Garrone recupera le atmosfere neorealiste della serie tv di Luigi Comencini, assenti, invece, nel fallimentare film di Benigni del 2002 e le utilizza, non però come fattore razionalizzatore della favola, ma come elemento aggregante per la creazione di un universo in cui reale e magia convivono, ma dove solo chi è puro di cuore, come il babbo Geppetto, genitore e bambino al tempo stesso, così come la fata turchina è prima sorella e compagna di giochi e poi madre, può davvero percepirla. Mentre gli altri, come l’avido Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi), il Gatto e la Volpe o il subdolo Omino di Burro (Nino Scardina), o non la comprendono o la usano per fare del male. Un mondo, quindi, certamente oscuro, straziante la separazione tra Pinocchio e Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), ma che conserva, anche grazie a una fotografia quasi “pittorica” di Brüel, che ricorda da vicino le opere del movimento artistico dei Macchiaioli toscani, tutta la pasoliniana straziante meravigliosa bellezza del creato, il picaresco spirito d’avventura del romanzo, la sua ironia che spesso sconfina nella satira (Pinocchio viene giudicato da una vecchia scimmia che come semplice parodia dell’uomo è per definizione ingiusta e illogica) e naturalmente l’alto valore pedagogico, anche nel toccante finale che lascia intendere che il termine del viaggio del burattino è in realtà solo l’inizio per lui di una nuova avventura.
Sontuosa trasposizione di un classico che riesce con notevole maestria a riprodurne sullo schermo tutte le affascinanti sfaccettatura.
Andrea Persi