Riassunto “sociologico” di una saga: il primo e più iconico Rambo, trasposizione meno pessimistica dell’omonimo romanzo del canadese David Morrel, aveva pretese di denuncia verso la società rampante degli anni ’80 che non onorava, anzi disprezzava, i propri eroi; il secondo e il terzo, figli della guerra fredda, celebravano, invece, la superiorità morale dell’eroe americano, mentre il quarto, diretto dallo stesso Stallone e girato in un periodo dove più che le guerre faceva paura la crisi economica, voleva essere una malinconica riflessione sul fatto che per quanto si cerchi la pace, il mondo rimane un luogo inevitabilmente violento.

E anche questo nuovo capitolo, diretto da Adrian Grunberg (Viaggio in Paradiso, action di modesto successo interpretato da un’altra icona di Hollywood, Mel Gibson), per la sceneggiatura di Matthew Cirulnick e dello stesso Stallone, la fotografia di Brendan Galvin (Il volo della fenice, Escape Plan) e le musiche di Brian Tyler (I mercenari 3, Avengers – Age of Ultron), sembra essere un figlio del proprio tempo.

Il veterano John Rambo (Sylvester Stallone) è tornato a casa nella fattoria dei suoi genitori, dove vive con la governante Maria (Adriana Barraza) e la sua giovane nipote Gabriella (Yvette Monreal), cercando di tenere a bada le ombre del proprio passato. Ma quando il desiderio della ragazza di rivedere il padre che l’ha abbandonata la metterà nei guai, l’ex berretto verde dovrà tornare a combattere ancora una volta.                       Nell’America di Trump, Stallone, basandosi sul plot vecchio come i dinosauri del tipo tranquillo a cui fanno girare gli zebedei, trasforma il suo reduce dal Vietnam nell’eroe di frontiera (con tanto di cappello da cowboy) solido, affidabile e saggio, tanto che per la prima parte del film si stenta a distinguere l’ex militare dall’assennato Balboa, ma fatalmente tormentato dai propri fantasmi al punto di nascondersi al mondo in una specie di cunicolo sotterraneo funzionale, in realtà, più a giustificare grottescamente le esigenze di copione che a cercare una reale introspezione del personaggio e dei suoi traumi. Traumi che esplodono in tutta la loro violenza quando i cattivi, che ovviamente vivono oltre il confine di una terra crudele (dove non a caso è tornato anche il padre di Gabriella che l’ha abbandonata e la sua egoista amica Jezel), turbano la serenità dell’eroe che si fa carico in maniera quasi messianica, come Christian Bale in Hostiles (altra pellicola estremamente “trumpiana”) di utilizzare la violenza per difendere, più che le gli innocenti, uno stile di vita a cui i buoni aspirano (e infatti vivono in Usa) e che i cattivi respingono restando in Messico e che raggiunge la sua celebrazione assoluta nella sequenza in cui l’unica persona decente conosciuta da Sly in terra straniera, la giornalista Carmen (interpretata dall’attrice spagnola Paz Vega), non ne riconosce, in una sequenza pressoché inutile ai fini della storia, la giustezza rispetto al proprio. Comunque e nonostante la raccapricciante recitazione di Stallone nei momenti drammatici, che conferma la maggiore versatilità dell’amico\rivale Schwarzenegger, l’action funziona egregiamente anche per i colpi di scena non certo scontati che lo sollevano, malgrado le inevitabili esagerazioni gore, dalla media, mentre il finale lascia aperta la possibilità di un sequel sul quale, come sempre, sarà il pubblico a decidere.

Andrea Persi

 

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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