Nell’universo fumettistico la saga della Fenice Nera (spesso considerata suddivisa in due parti) e sceneggiata da Chris Claremont per i disegni di Dave Cockrum e John Byrne, fu oggetto, nel lontano 1980 di un vivace dibattito editoriale circa la sua conclusione fra chi come gli autori e l’editor Louise Simonson volevano che storia terminasse con Fenice che perdeva i poteri e chi, come il chief editor Jim Shooter, proponeva, invece (con maggiore originalità e sadismo) che venisse esiliata su un asteroide radioattivo dove sarebbe per sempre arsa fra le radiazioni cosmiche. Come spesso succede si scelse una soluzione di compromesso che, a rischio di fare un piccolo spoiler, è la stessa scelta, con tutti gli aggiustamenti del caso anche da Simon Kilberg, qui all’esordio come regista ma già sceneggiatore di altri capitoli della saga degli X-Men come Giorni di un futuro passato o Apocalisse, a cui si affiancano come direttore della fotografia e autore delle musiche, i premi Oscar Mauro Fiore e Hans Zimmer.
Nel 1992, un decennio dopo gli eventi di Apocalisse, gli X-Men del Professore Xavier (James McAvoy )sono diventati degli eroi mondiali, rispettati e amati dalla gente. Ma nel corso di una pericolosa missione nello spazio Jean Grey (Sophia Turner) rimane esposta a una misteriosa radiazione spaziale che ne aumenta poteri in maniera sinistra e incontrollabile.
Il primo film di Casa Marvel dopo “l’ineluttabile” Endgame e ultimo, a detta dei produttori, della longeva saga dei X-Men, capostipite illegittimo, in quanto non facente parte ufficialmente del Cinematic Universe iniziato nel 2011 con Capitan America, sembra introdurre un concetto, sfiorato anche dal plot dell’imminente Spiderman far from home, già consolidato nei fumetti e che ora sembra destinato espandersi anche ai film: quello del multiverso. Con attori che escono di scena per stanchezza o per età e con precedenti film (ben 11 prima di questo, fra cui un crossover con l’irriverente Deadpool) che hanno in modo o nell’altro fissato paletti narrativi piuttosto rigidi, i concetti di reboot o prequel sono diventati, anche dopo il reset temporale di Giorni di un futuro passato, troppo stretti per la prosecuzione della storia. E così lo spettatore si troverà davanti a un racconto molto più cupo dei precedenti, in cui manca non solo il sarcasmo del mitico Wolverine ma anche quello del personaggio di Quick Silver, interpretato da Evan Peters, che viene praticamente azzerato da una sceneggiatura che si prende fin troppo sul serio con un Charles Xavier così cinico da apparire privo di sentimenti e un Magneto piagnone ai limiti della soap opera, nella quale non solo gli eventi storici sono stravolti (il presidente in carica è un Bush senior che dimostrerà si e no 40 anni) ma anche l’incoerenza narrativa tra le diverse pellicole è troppo grande per giustificarsi con errori di continuità o riserve di “sistemare le cose” in un futuro capitolo. Ciò ne fa un film in cui lo spettatore può aspettarsi qualunque cosa, ma che nonostante questo non porta nulla di davvero epocale nella storia, limitandosi a utilizzare concetti e idee già viste come il fragile equilibrio tra umani e mutanti, la minaccia di una terza fazione o il valore del sacrificio in un’opera nel complesso discreta ma ben lontana dall’inventiva di Giorni di un futuro passato e dalla crepuscolare malinconica di Logan.
Un’uscita di scena, dunque, in tono minore, ma che forse è solo la chiusura di uno dei tanti universi.
Andrea Persi