Quando nel lontano 1932, il regista Victor Halperin diresse il grande Bela Lugosi ne L’isola degli zombie che è considerato il primo film sui morti viventi, essi erano ben lontani dallo stereotipo “romeriano” dell’antropofago dai movimenti impacciati, metafora di una società essa stessa in decomposizione.
Un disfacimento che col tempo si scoprì che poteva essere raccontato anche con ironia, che non mancava nemmeno nelle pellicole del maestro newyorkese (si veda il finale del suo ultimo lavoro Survival of the dead) e che ha trovato la sua maggiore espressione in pellicole come L’alba dei morti dementi o Benvenuti a Zombieland di Ruben Fleischer il cui sequel arriva nelle sale dopo ben 10 anni sempre diretto da Fleischer, sceneggiato dal team composto da Rhett Reese, Paul Wernick e David Callaham per la fotografia del coreano Chung-hoon Chung (Quel fantastico peggior anno della mia vita, It) e le musiche dei Black Strobe.
Il gruppo di sopravvissuti all’apocalisse zombie formato da Columbus (Jesse Eisenberg), Tallahassee (Woody Harrelson), Witchita (Emma Stone) e Little Rock (Abigail Breslin) si è stabilito in quella che una volta era la Casa Bianca per sfuggire ai mostri che nel frattempo sembrano essersi divenuti ancora più letali. Ma una serie di bizzarre circostanze condurrà gli amici nuovamente in giro per gli ex Stati Uniti per dare battaglia alle orde non morte.
Se riuscite a resistere a oltre un’ora a dialoghi e situazioni comiche più scontate e vuoti dell’agenda di Carlo Verdone in Troppo Forte, che raggiungono l’apice col cameo di Luke Wilson, a un insopprotabile Jesse Eisenberg che tenta di fare il verso al nevrotico Woody Allen dei tempi migliori e al machismo da grandi magazzini di Woody Harrelson, potreste anche trovare piacevole un film che si risolleva dal più trito squallore verso la fine, esattamente a partire dalla scena della Torre di Pisa (esatto, proprio quella), mantenendo da lì in poi un discreto livello di comicità demenziale fino all’epocale scontro finale tra buoni sempre più strampalati e cattivi sempre più famelici e alla simpatica scena durante i titoli di coda.
Un’operazione commerciale e cinematografica totalmente incomprensibile se non nella speranza di ripetere, spingendo sul pedale della nostalgia, l’exploit del film originale, non a caso ossessivamente citato in quasi ogni sequenza.
Risultato: un bagno di sangue del buon Cinema degno del quarto capitolo di Indiana Jones.
Andrea Persi