La vita quotidiana di un ufficiale tedesco (Christian Friedel), della moglie e dei loro cinque all’interno di un’idilliaca proprietà di 25 miglia nei pressi della base in cui il capofamiglia lavora. L’ufficiale si chiama Rudolf Hoss e la base è il campo di concentramento di Auschwitz.

Il regista inglese Jonathan Glazer, affronta la tragedia della Shoah da un punto di vista originale e nuovo, mostrandocela attraverso la vita quotidiana di uno dei carnefici e della sua famiglia, volutamente e ostinatamente ciechi e sordi (salva qualche furtiva e disinteressata occhiata attraverso le tende) alla tragedia che si consuma a pochi metri da loro e più preoccupati della loro quotidianità come il the con le amiche, la cura del giardino (la cui importanza diventa chiara per lo spettatore verso la fine del film), il rischio di un trasferimento del capofamiglia, le gite al fiume e così via.

Eccovi il Trailer

Se ne la vita è bella, Roberto Benigni, rappresentava l’orrore della Shoah attraverso la comicità (il medico nazista apparentemente interessato ad aiutare Guido  la sua famiglia, ma che invece vuoi solo il suo aiuto per non risolvere un indovinello da bambini) qui lo percepiamo senza vederlo (al massimo scorgiamo il fumo dalle ciminiere del campo), ma percependolo tramite urla e gli spari che fanno da costante sottofondo alle giornate dei protagonisti (l’unico momento entra in scena la musica e quando una ragazza suona al piano musica, anche quella, rubata ai prigionieri) e osservando le azioni dei protagonisti che denotano più che indifferenza o odio, un’allenata cecità a ciò che accade, nella consapevolezza, concetto questo ribadito più volte dal personaggio di Hedwig (Sandra Hüller), che ciò che sta accadendo (o meglio ciò che stanno facendo) è quello che gli permette la loro vita di agi e bellezza. Nulla di nuovo fin qui nel concetto del forte che prevalica il debole ma espresso in una maniera nuova che sicuramente lascia il segno nello spettatore.

Tuttavia il film di Glazer sconta gli stessi limiti della sua unica incursione hollywoodiana ovvero Birth – Io sono Sean del 2004. Ossia una trama, nella quale il regista cita anche 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, che si sviluppa con verbosa lentezza in numerose scene che non dicono nulla ma si limitano a ribadire lo stesso concetto. Per fare un esempio: Hedwig e sua madre passeggiano il giardino e passano a qualche metro da un prigioniero che sta curando un albero. Certamente la scena successiva in cui la donna si alza per andare a rimproverare il cane per aver rubato il cibo dalla tavola poteva essere girata meglio coinvolgendo il prigioniero visto prima e rendendo più esplicito il rapporto tra gli aguzzini e le loro vittime.

Insomma l’intuizione di Glazer è geniale ma il cineasta in dimostra di aver avuto il fiato corto nel tentativo di svilupparla per i quasi 100 minuti di film.

Andrea Persi  

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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