Nel 1959 l’originale cineasta William Castle diresse la pellicola, interpretata da un memorabile Vincent Price, La casa dei fantasmi, ironica e cinica critica del capitalismo americano in cui, attraverso il cliché della casa stregata, il regista giocava sottilmente sul confine tra ciò che è sovrannaturale e ciò invece che è frutto delle azioni umane. Un esperimento non del tutto riuscito all’epoca, soprattutto per il finale in sospeso, ma che ha fatto scuola e che oggi viene riproposto, sotto la forma dell’horror psicologico dai registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala (Goodnight Mommy), qui anche sceneggiatori assieme a Sergio Casci (The Caller), per la fotografia di Thimios Bakatakis (Il sacrificio del cervo sacro) e le musiche di Danny Bensi (Edison, Regali da uno sconosciuto) e Saunder Jurriaans (La scoperta).

Alcuni mesi dopo la morte della madre, Aidan (Jaeden Martell) e Mia (Lia McHugh), si recano con la fragile Grace (Riley Keough), nuova compagna del padre (Richard Armitage), nella loro casa di montagna per trascorrervi il Natale. Rimasti isolati dalla tormenta, i due ragazzi e la giovane donna rimarranno vittime di eventi sempre più sinistri, mentre la linea tra razionalità e follia diverrà via via più sottile.

La coppia di registi austriaci ripropone in salsa yankee (ci sono perfino la Festa del Ringraziamento e le “sacrosante” armi da fuoco che spuntano ovunque) la formula utilizzata in Goodnight Mommy di un horror ambientato in un luogo chiuso, in cui eventi inspiegabili accrescono i contrasti latenti tra i personaggi.

Stavolta però il risultato non è certamente all’altezza del film precedente. La tensione stenta parecchio a decollare sia per la lentezza con cui la storia si sviluppa e sia per una certa povertà di idee che conduce a sbocchi narrativi frettolosi o poco convincenti (un padre che manda i figli preadolescenti in una baita isolata dopo la morte della madre assieme a una compagnia emotivamente debole è roba da Telefono Azzurro, ma la cosa viene buttata lì senza troppi problemi) e a poco servono scelte estetiche (come l’utilizzo delle casette giocattolo o la scena dei palloncini) che si rifanno alle tecniche del newyorkese Ari Aster, in particolare al suo film d’esordio, Hereditary.

Solamente nel finale (e solamente dopo un twist narrativo piuttosto prevedibile), tutta l’ambiguità costruita nel corso della pellicola crea ottimi momenti di tensione e inquietudine che pur sfociando in un discreto finale, non giustificano le precedenti prolissità e semplificazioni.

Horror complessivamente discreto, che poteva riuscire meglio.

Andrea Persi 

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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