Non esiste un punto di accesso facile per chi è affascinato dal mondo che Yorgos Lanthimos crea in Dogtooth, ma la natura impenetrabile del materiale brucia attraverso la nostra curiosità come un coltello caldo che taglia la margarina.

È qui che il cuore del noto brio del regista per l’elaborato assurdo ha preso il suo primo battito, in una storia di una famiglia così lontana dal mondo civilizzato che potrebbero benissimo esistere su un palcoscenico.

A volte sembra persino una possibilità legittima, in particolare quando tentiamo di classificare i dettagli della trama attraverso la nostra conoscenza delle convenzioni cinematografiche; ci sono scene modulate come se alludessero a qualcosa di grandioso, come una grande rivelazione che aspetta solo di essere scoperta.

Il nostro errore, e quindi la sua risorsa, è presumere che tutto ciò porti a una sorta di ricompensa. Questo è un film che ci richiede di osservare, contemplare e reagire semplicemente senza cavalcare nessuna delle onde tradizionali.

Non ci sono rivelazioni, né colpi di scena improvvisi del destino che ci invitano a un dettaglio che evidenzi il contesto letterale; ci viene chiesto di accettare i personaggi non come persone pienamente realizzate mosse dalla curiosità, ma come esperimenti a loro agio con il loro isolamento culturale.

La situazione: una famiglia di cinque persone risiede comodamente da qualche parte sulle colline della campagna greca, guidata da un padre che va per il mondo di giorno e torna, di solito con storie colorate, di notte.

La realtà: lui e sua moglie sono i genitori di tre adolescenti che non hanno il concetto di una realtà al di là di quella che viene messa davanti a loro.

 Il motivo: segreto.

Potrebbe essere potere sugli innocenti? Paura della civiltà? Qualcosa di più minaccioso, forse anche post-apocalittico? O sperimentale? Le nostre menti turbinano queste possibilità in prima linea in ogni impulso comportamentale che sembra probabile, sebbene senza fine di gratificazione; man mano che scendiamo ulteriormente, diventa ovvio che Lanthimos è interessato solo a studiare la meccanica stessa delle loro personalità.

La storia riguarda alcune brevi settimane nella vita di questa famiglia greca, murata nella loro casa come prigionieri della propria ignoranza. Il padre possiede una fabbrica; ogni giorno vi si reca, lavora con gli altri in passaggi ordinari e poi ritorna in un mondo che suona come un sogno ad occhi aperti giovanile.

Qui, gli adolescenti hanno vissuto tutta la loro vita nutrendosi di storie quasi ridicole: gli aeroplani sono giocattoli che possono cadere dal cielo se si comportano bene, il collutorio è una punizione per non seguire le regole, il cortile non è sicuro se vagano da soli e i gatti sono bestie demoniache in attesa di artigliarle a morte.

Le spiegazioni, che vanno dal bizzarro al folle, nascono da una necessità istintiva di rivelare una verità ai bambini, forse perché avrebbe risvegliato troppo la loro curiosità.

Per molti aspetti questo ci costringe ad attribuire un certo livello di disgusto ai genitori, che non sono motivati ​​da alcuna ovvia nozione di protezione, per quanto estrema.

L’anima del film risiede nei desideri adolescenziali. La figlia maggiore, apparentemente distaccata dal bisogno di proteggere o nutrire gli altri, guida le avventure in casa come una severa facilitatrice della routine. Il figlio, apparentemente all’inizio della pubertà, è incoraggiato ad agire in base ai suoi nuovi impulsi dal padre, che occasionalmente porta a casa una donna dal lavoro per assistere al percorso formativo.

Tutte queste azioni e risposte vengono fornite meccanicamente, senza alcun senso di accumulo o enfasi sulla sensazione umana. Non si cerca, inoltre, di capire il loro contesto; farlo significherebbe attribuire un valore emotivo a una situazione che non richiede nessuno.

Alcuni certamente assorbiranno queste qualità e le troveranno in divergenza con i propri standard personali, ma fare un film in questo modo ha un valore perverso.

Per Lanthimos, significa avere il controllo totale di un mondo che non ha confini letterali; per noi, impegna gli occhi in una situazione in cui nulla può essere anticipato.

Man mano che la storia avanza da un’assurda affermazione all’altra, diventa più chiaro, con ogni atto che passa, che il film funziona come una cartina di tornasole per la nostra stessa pazienza.

Eppure, senza riserve, continuiamo a guardare, a volte con orrore, spesso con confusione, e sempre in totale soggezione della sua energia strana e sconcertante.

La scena finale, sconcertante e inconcludente come ci si aspetterebbe, tocca la nota giusta del titolo: la chiave per capire qualsiasi cosa, infatti, può esistere da qualche parte in un’agonia che ci imponiamo o nell’accettare un conforto innaturale.

Il secondo lungometraggio del regista greco Yorgos Lanthimos è in parte enigma, in parte allegoria e in parte fantascientifico nella sua creazione di una realtà completamente alternativa.

Inquietante e talvolta sorprendentemente brutale, il film allontanerà coloro che cercano piatti gentili presso la casa d’arte. Ma la sua integrità tagliente e l’atmosfera distintiva dovrebbero conquistare gli spettatori, in particolare tra coloro che ammirano il lavoro meno ironico di Lars Von Trier. 

Valerio Sembianza

Eccovi il trailer

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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