Di Andrea Persi
Può un buffo animale salvare una compagnia con migliaia di dipendenti? Ebbene può se si chiama Dumbo e la compagnia in questione è la Walt Disney Company. All’inizio degli anni quaranta la situazione per la società di Topolino era molto delicata. I precedenti lungometraggi, Pinocchio e Fantasia erano stato due costosi e sono flop tanto da costringere l’azienda a tentare la via del mercato azionario per coprire i debiti accumulati per quasi 5 milioni di dollari, equivalenti a parecchie centinaia di odierni. Questo, unito all’atmosfera di austerità dovuta al 2° conflitto mondiale in cui il Paese stava per entrare, raccomandava la realizzazione di pellicole non troppo costose, quantomeno per limitare le eventuali perdite. E, infatti Dumbo, pur utilizzando la medesima pittura ad acquarello, usata per Biancaneve e i sette nani, appare ben lontano dal sontuoso design delle precedenti pellicole. Eppure fu uno straordinario successo tanto da incassare il doppio di quanto era costato e venendo distribuito, dopo la guerra anche in Paesi lontani come la Cina o le Filippine.
68 anni dopo, non ha invece dovuto badare a spese il geniale Tim Burton, per portare sullo schermo la versione live action del classico assistito alla sceneggiatura da Ehren Kruger (Scream 3, e il prossimo venturo Il talismano tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King), alla fotografia da Ben Davis (Doctor Strange, Tre manifesti a Ebbing, Missouri) e alle colonna sonora del premio oscar Danny Elfman (La fabbrica di cioccolato, La sposa cadavere).
Stati Uniti 1919. L’impavido cavallerizzo Holt Farrier (Colin Farrel) torna a casa dalla guerra per riabbracciare i figli Milly (Nico Parker) e Joe (Finley Hobbins) e il resto dei suoi pittoreschi amici che lavorano nel circo dell’irascibile Max Medici (Danny De Vito). Ma per lui la vita si è fatta dura. Sua moglie è morta, lui è rimasto menomato in battaglia e il circo versa in una profonda crisi finanziaria, finché la salvezza non sembra arrivare da un cucciolo di elefante talmente speciale da attirare l’attenzione del ricco impresario V. A. Vandevere (Michael Keaton) e della sua compagna, la trapezista Collette (Eva Green).
Dopo una serie di film dark non certo fortunati, come Sweeney Todd e Dark Shadows, Burton mette la sua fantasia estetica e tecnica al servizio di una storia tipicamente disneyana, quasi una commedia anni ’90 per famiglie, che all’arcinota trama del cartone abbina, potremmo dire lega, per trasmettere un edificante e commovente messaggio sul coraggio e sulla famiglia, intesa come gruppo di persone che si amano, quella dei personaggi in carne e ossa del tutto assenti nel film d’animazione, che condividono con il magico elefantino il dolore per una famiglia disgregata e il desiderio di ritrovarla. Il regista di Edward mani di forbici, rinuncia a molta di quell’originalità narrativa che lo ha reso uno dei più grandi innovatori di Hollywood per un racconto più convenzionale rispetto ai suoi standard, in cui se non mancano omaggi all’opera originale, come i celebri elefanti rosa volanti, nemmeno è assente, nella rappresentazione del “fabbricante di sogni” Vandevere del quale, per l’appunto, ci viene fatto notare che non ha avuto una famiglia, una sardonica frecciata allo stesso Walt Disney, tipica, si pensi al cult Beetlejuice, delle ironiche provocazioni burtoniane. Si potrebbe, dunque, pensare facilmente che in questo gioco di compromessi artistici tra il regista e il produttore sia lo spettatore a perderci, ma non è così. La pellicola sembra, infatti, perfetta per far gioire e commuovere il pubblico di tutte le età, grazie a scene di grande emozione come quelle del “primo volo” di Dumbo o dell’arrivo della magica Dreamland.