La studiosa di lingua inglese Azar Nafisi (Golshifteh Farahani) rientra in Iran dopo la rivoluzione del 1979, speranzosa di trovare una nazione maggiormente libera. Nei successivi 20 anni si renderà conto della natura oppressiva della Repubblica Islamica e, cercherà, attraverso la sua attività universitaria e con un gruppo di donne coraggiose di tenere viva la fiamma della liberà di pensiero attraverso la lettura di libri messi all’indice dal regime.
Ispirato a una storia vera, il film tratta di un tema sempre d’ attualità ovvero quello della lotta delle donne in Iran contro l’oppressiva teocrazia islamica che governa il Paese, narrata non attraverso gesti eclatanti, sebbene profondamente giusti, come quello della studentessa Ahoo Daryaei che si è denudata in pubblico per protestare contro le guardie di sicurezza che le avevano rimproverato d’indossare il velo in modo inappropriato, ma attraverso il costante e silenzioso lavoro per mantenere vivi quei diritti fondamentali delle persone come leggere un libro, ballare, cantare o esseri liberi nel vestiario.
Una rivoluzione costante e silenziosa che il film di Eran Riklis, israeliano ma da sempre contrario alle politiche del suo governo contro i palestinesi, non riesce a rendere efficacemente edulcorando o non mostrando alcune scene alcune scene chiave (come quelle delle torture delle donne in carcere o il suicidio del sostenitore del regime, scioccato dalla guerra tra Iran e Iraq, in teoria fratelli nel nome dell’Islam) rappresentando, nonostante i contrappesi costituiti dai personaggi maschili di Bahri (Reza Diako) e del marito della protagonista Bijan (Arash Marandi), la cultura islamica irrimediabilmente retrograda rispetto a quella occidentale (esaltata, forse eccessivamente dai “classici clandestini” letti dalle protagoniste) e da una progressione narrativa didascalica e noiosa, scandita dai capitoli principali del romanzo autobiografico da cui il film è tratto, senza alcun, per dirla come i finti dirigenti di Netflix ne “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti un vero e proprio “turning point” della storia (altro che arrivare tardi), anche perché quello effettivo contenuto nel libro viene rappresentato in maniera talmente prolissa che quando si verifica non è nemmeno più tale.
Al film, in sostanza, manca quella forza di denuncia sociale e politica che si hanno invece altre pellicole recenti, come Holy Spider di Ali Abbassi Tatami di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, men che mai è una pennichella pomeridiana
Andrea Persi
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