Andrea Persi

Quando si usano paroloni come “fantascienza distopica post apocalittica” si pensa a opere che si interrogano con profondità e pessimismo sul futuro della razza umana, come il bellissimo I figli degli uomini di Alfonso Cuarón o come il disperato The Road di John Hillcoat. Il cinema invece ha sfornato anche opere dissacratorie come Un ragazzo, un cane, due inseparabili amici del 1975, dove un cucciolone dotato di poteri telepatici aiutava il suo giovane padrone, interessato solo a concupire le ragazze scampate all’olocausto nucleare o opere di mero intrattenimento come saga di Divergent. Un adattamento in questo senso è quello fatto, dell’opera della scrittrice Alexandra Bracken, dalla regista coreana Jennifer Yuh Nelson, famosa per i sequel 2 e 3 del cartoon Kung Fu Panda, con la sceneggiatura di Chad Hodge, la fotografia di Kramer Morgenthau (Terminator Genesys, Creed 2), e le musiche di Benjamin Wallfisch (Blade Runner  2049, It).

Un misterioso e incontrollabile virus ha decimato il 99% dei bambini del mondo e i superstiti hanno sviluppato misteriosi superpoteri che hanno spinto il governo americano a imprigionare in campi di lavoro quelli ritenuti meno pericolosi e a giustiziare gli altri. Tra questi ultimi c’è la giovane Ruby (Amandla Stenberg) che, scampata all’esecuzione, ha vissuto rinchiusa per 10 anni, finché la dottoressa Cate Connor (Mandy Moore) non l’aiutata a scappare. Unitasi ai coetanei Liam (Harris Dickinson), Chubs (Skylan Brooks) e Zu (Miya Cech), Ruby cercherà, quindi, di raggiungere la salvezza in un mondo totalmente diverso e molto più ostile di quello che ricordava.

Mescolando elementi tratti dagli X-Men, notiamo che anche negli ultimi capitoli del franchise Marvel si è accentuato molto il ruolo degli adolescenti e persino dei bambini rispetto ai personaggi adulti, dalla serie di Hunger Games sia per la protagonista femminile che per la divisione dei “diversi” in base ai poteri di ciascuno che ricorda la rigida schematizzazione dei distretti di Panem e, infine, la trilogia di Maze Runner per la tematica della malattia distruttiva e della comunità, un po’ frikkettona, dei sopravissuti.  Il minestrone che ne viene fuori è tutto sommato gradevole anche se prevedibile sia nella trama principale che nella sottotrama romantica e apertamente deludente in quella della cacciatrice di taglie, chiusa piuttosto sbrigativamente, del ritorno a casa della protagonista, oscuramente condensata in un flashfoward e del potere dell’ultimo gruppo di “mutanti” che viene taciuto al pubblico fino alla fine del film.

Lascia il segno, in un cast che certo non aspirava a vincere all’Oscar, Amandla Stenberg che ricordiamo nel primo capitolo, appunto, di Hunger Games e del più recente Noi siamo tutto.

Passatempo per adolescenti allo stato puro (con tanto di finale aperto per eventuali futuri capitoli), al quale, pur mancando i mezzi tecnici e la vivacità narrativa dei film tratti dai romanzi di Suzanne Collins, possiamo però dire: “e perché no?”

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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