Durante la finale dell’ ATP Challenger tour (serie di tornei maschili di seconda categoria, studiati per consentire a giocatori di seconda fascia di acquisire un punteggio sufficiente per accedere alle qualificazione dei tornei ATP) i tennisti Art Donaldson (Mike Feist) e Patrick Zweig (Josh O’Connor) rivivono i momenti principali della loro amicizia e l’amore per la stessa donna, la talentuosa giocatrice Tashi Duncan (Zendaya).
Dopo l’amore tenero e sincero dei protagonisti di Chiamami col tuo nome, che, nonostante l’elevata qualità tecnica del film risultava piuttosto banale dal punto di vista narrativo, (l’amore tra due uomini, uno dei quali uno giovanissimo, poteva colpire negli anni ’80 quando il film era ambientato, ma ormai è la normalità) e quello mostruoso e disperato tra due giovani cannibali nel midwest di fine anni ’80 in Bones and all, Luca Guadagnino ci offre un film, basato sul racconto Queer dello scrittore William S. Burroughs, famoso per le sue novelle in cui affrontava tematiche (spesso personali) omosessuali “forti” che è, invece, l’esatto opposto di una storia d’amore e men che meno di una commedia romantica ambientata nel mondo dello sport come Wimbledon di Richard Loncraine.
Il triangolo tra i protagonisti (le cui diverse sfaccettature emergono nel corso nella storia che si snoda in continui flashback), più che una love story somiglia maggiormente, a una tragedia shakespeariana nella quale risalta il peggio della natura umana come l’egoismo, arrivismo, e il piacere di infliggere umiliazione al prossimo, ma in cui la violenza è più suggerita (ad esempio attraverso le soggettive nelle partite di tennis) che mostrata, mente nelle interazioni dei protagonisti viene maggiormente enfatizzato il loro disagio emotivo, spesso dovuto all’insoddisfazione anche nella sfera sessuale.
Come nei precedenti film, Guadagnino offre, infatti, ampio spazio alla sensualità dei suoi personaggi che però in questa pellicola non rappresenta amore o passione ma costituisce un ulteriore sintomo della loro decadenza morale che, forse, solo nel finale troverà una propria redenzione.
Un efficace dramma psicologico che rischia di non essere compreso, ma che probabilmente lascerà il segno come le opere precedenti del regista palermitano.
Andrea Persi
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