All’inizio degli anni ’80 la linea basket della Nike guidata da Sonny Vaccaro (Matt Damon) e Rob Strasser (Jason Bateman) non riesce a tenere il passo dei concorrenti Adidas e Converse. Sonny decide allora di compiere una scelta estrema: ossia di investire l’intero budget dell’azienda per convincere Michael Jordan a firmare un contratto con la loro società, nonostante le perplessità dell’amministratore delegato Phil Knight (Ben Affleck) e la resistenza della madre di Jordan, Deloris (Viola Davis).
Affleck torna alla regia sette anni dopo il flop di La legge della notte con una storia apparentemente banale che riesce, sfruttandone il fatto di essere sconosciuta ai più e all’ottima prova del cast, in particolare di Matt Damon e di Viola Davis, a rendere intrigante e avvincente costituita, in perfetto stile “sorkiniano”, da dialoghi brillanti e serrati (che proprio per questo, però, a volte però appaiono ostici da seguire), personaggi egocentrici, anche se moralmente impeccabili, sicuri di sé e con la tendenza a spiegare il mondo (meglio il proprio mondo) agli altri.
Tuttavia ciò che mette in scena Affleck (amico del vero Phil Knight) e quanto di più distante ci possa essere dalle idee “liberal di Sorkin”. Filo conduttore di tutto il film è, infatti, l’esaltazione, quasi una venerazione, del capitalismo tra papà che temono di perdere l’affetto dei figli se non gli possono più regalare l’ultimo modello di scarpe e madri che ne valutano il talento a suon di bigliettoni, mentre ai comuni mortali, come si dilungano a spiegarci i titoli finali non rimane che spendere i sudati guadagni per comprarsi (letteralmente) le calzature dei nostri idoli e sperare nella loro benevolenza.
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Il film, insomma, idealizza la corsa al successo del periodo reaganiano quasi quanto il recente Armageddon Time la stigmatizza, esaltandone i protagonisti come persone, probabilmente con vite personali fallimentari ma dedite come missionari (o monaci buddisti) al loro ideale che non è tanto il guadagno quanto il riconoscimento (a suon di dollari) del merito e del coraggio, vedi in questo senso i dialoghi tra Damon e un commesso espertissimo di basket da cui traspare che il ragazzo, benché capace, non avrà mai successo perché privo di quella “capacità” di rompere gli schemi propria di chi sogna in grande.
Affleck confeziona, insomma, un anticonvenzionale film sul basket e sul mito Michael Jordan (in cui non si vedono né l’uno né l’altro) che in realtà è un inno, alquanto conturbante lo spettatore, al sogno americano nel suo aspetto più materialistico.
Andrea Persi