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    Belfast, La Recensione.

    giuborsBy giubors23 Febbraio 2022Updated:23 Febbraio 2022Nessun commento3 Mins Read
    Poster - Passione Cinema

    La pellicola di Sir Kenneth Branagh, presentata come film di chiusura all’ultima Festa del Cinema di Roma, non solo è stata definita la miglior pellicola del 2021 dal regista di American Gigolò Paul Schrader ma con le sue sette candidature (tra cui miglior film, miglior regia, migliori attori non protagonista ai veterani del grande schermo Judy Dench e Ciáran Hinds) si presenta come l’unico vero avversario degno di nota per il pluri candidato Il potere del cane di Jane Campion pur essendo, come vedremo, un film molto diverso.

    Belfast 1969. Il piccolo Buddy (Jude Hill), appartenente a una famiglia di religione protestante, vive un’infanzia spensierata con i genitori (Jamie Dornan e Caitríona Balfe, famosa per la serie tv Outlander), i nonni (Judy Dench e Ciáran Hinds) e il fratello maggiore Will (Lewis McAskie), nonostante le continue assenze del padre costretto per lavoro a spostarsi spesso in Inghilterra. Lo scoppio delle ostilità tra cattolici e protestanti, sconvolgerà drasticamente la vita del bambino e dei suoi cari.

    Branagh torna al bianco e nero 26 anni dopo il divertente Nel bel mezzo del gelido inverno, commedia su uno scalcinato gruppo di attori che attraverso l’allestimento teatrale dell’Amleto trovano l’occasione di affrontare i propri drammi personali, per un altro film che utilizza toni leggeri per raccontare eventi drammatici visti attraverso gli occhi di un bambino (il bravissimo esordiente Jude Hill) emblema di tutti i bambini vittime della guerra (non a caso i nomi dei genitori e dei nonni non vengono mai menzionati) ma che è fin troppo facile identificare con lo stesso regista.

    Anche Branagh aveva nove anni nel 1969, apparteneva a una famiglia della classe operaia di Belfast e probabilmente ha vissuto in prima persona la trasformazione del proprio quartiere da ambiente sicuro e familiare a trincea di prima linea tra soldati armati, molotov e autobombe, cercando rifugio a una realtà ostile dell’affetto della famiglia, nella musica, nel cinema e nel teatro.

    Non appaiono, infatti, casuali le scelte di girare a colori le sequenze che mostrano opere cinematografie dell’epoca come Barbarella o Chitty chitty bang bang o un palcoscenico su cui viene rappresentato Canto di Natale e nemmeno quella di mostrare, invece, in bianco e nero (anche quando sullo schermo c’è un altro classico come Mezzogiorno di fuoco) le immagini dello schermo tv, sia per omaggiare le passioni del regista (il Cinema  e il Teatro, appunto) anche per suggerirne la valenza positiva rispetto al televisore che si limita a riproporre (anche quando trasmette un film) la realtà oscura che circonda i protagonisti.

    Altro ruolo chiave è dato dalla musica (la maggior parte dell’artista nordirlandese Van Morrison, candidato all’Oscar con il brano Down to joy) che fanno da contrappunto alle scene più importanti, come i disordini scanditi da High Noon di Tex Ritter o la riconciliazione dei genitori di Buddy sulle note di Everlasting Love degli U2).

    Molto interessante, infine, l’utilizzo degli stacchi di montaggio e della profondità di campo che servono a Branagh per fornire dinamicità anche a scene per loro natura statiche (si pensi a Buddy che osserva dalla strada i genitori che parlano all’interno di un autobus e poi attira l’attenzione del padre entrando così nella conversazione o che parla con il nonno mentre la nonna nella stanza attigua sta preparando da mangiare).

    Branagh ci racconta la sua storia (e quella di tanti altri) con quella magistrale delicatezza propria dei grandi narratori e……dei bambini.

    Andrea Persi

    Eccovi il Trailer

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