Di Andrea Persi

La prima suggestione omosessuale della storia del Cinema si fa tradizionalmente risalire al 1895, con il film prodotto da Thomas Edison e intitolato Dickson Experimental Sound Film, in cui si vedono due uomini che ballano un valzer al ritmo di un violino, sebbene sia probabile che la scena venne girata così perché non c’erano donne nei paraggi. Da allora al rapporto gay mostrato da Ang Lee ne I segreti di Brokeback Mountain di tempo ne è passato, ma l’omosessualità continua a essere associata o a stereotipi piuttosto grotteschi o alla trasgressione. Non sorprende quindi che negli Stati Uniti, con buona pace degli psichiatri che lo hanno escluso da almeno un quarto di secolo, la stessa sia vista, in un’unione, questa sì alquanto bizzarra, tra Scienza e Fede, come un disturbo clinico e un peccato che si può e anzi si deve correggere. La pellicola vincitrice del premio della Giuria all’ultimo Sundance Festival come miglior film drammatico e tratta dal romanzo The Miseducation of Cameron Post di Emily M. Danforth, affronta questa tematica, per la regia della giovane Desiree Akhavan, sceneggiatrice assieme a Cecilia Frugiuele, la fotografia di Ashley Connor e le musiche di Julian Wass.

1993. La giovane Cameron Post (Chloë Grace Moretz), orfana di entrambi i genitori, viene sorpresa a baciare una sua compagna di classe e mandata dalla zia fervente cristiana in un centro di riabilitazione per “guarire” dal suo disturbo. La ragazza dovrà sottoporsi alle bizzarre quanto inutili terapie del centro ma troverà anche delle amicizie sincere.

L’intento parodistico della regista di mettere in ridicolo la cosiddetta terapia di riorientamento sessuale, finisce purtroppo per travalicare il messaggio stesso, riducendo la pellicola a un racconto in formato adolescenziale (quasi un teen movie Disney) in cui alcuni ragazzi prendono per il naso un gruppo di adulti bigotti e creduloni. Ma il vero disastro narrativo, da cui si salvano soltanto le sequenze dei “trip onirici” della protagonista, si compie nel rappresentare i giovani omosessuali come persone che hanno in mente solo di accoppiarsi con persone dello stesso sesso, pena ridursi peggio di Josh Hartnett nella commedia in 40 giorni e 40 notti. La storia, certamente non aiutata da un cast che sembra imbalsamato come i volativi di Norman Bates, vedasi il perenne occhio vitreo della Moretz,  diventa così talmente poco verosimile che i tentativi della regista, attuati utilizzando espedienti alquanto scontati, di drammatizzare il racconto si rivelano come palline di carta lanciate conto un muro. Del resto un conto è la foto di un orologio, un altro è un quadro di Dalì che lo riproduce e non basta un tema interessante per fare un film interessante.

Ciliegina sulla torta di questa catastrofe cinematografica le foto pubblicitarie che ne spolierizzano il finale. In conclusione, per dirla con Moretti “Va beh. Continuiamo così, facciamoci del male”

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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