“C’è una porticina nel mio ufficio che ti conduce all’interno di John Malkovich” recitava una delle tag-line più surreali e ammiccanti degli anni ’90, di un film scritto da Charlie Kaufman, sceneggiatore e regista da sempre affascinato dall’idea che la mente umana sia capace di costruire e decostruire la realtà, a volte tramite la tecnologia (Se mi lascio ti cancello) altre, attraverso le fragilità emotive degli individui (Synecdoche, New York). E Quest’ultima opera, di cui Kaufman e sia regista e sceneggiatore, mentre alla fotografia abbiamo Łukasz Żal (Loving Vincent) e alla musiche Jay Wadley, rappresenta un passo successivo e ancora più estremo rispetto al cartoon Anomalasia, di questo personale percorso artistico.  

La giovane Lucy (Jessie Buckely), si sta recando con il suo ragazzo Jack (Jesse Plemons) a conoscerne i genitori (Tony Collette, David Thewlis) che vivono in un’isolata fattoria. Nel corso del viaggio, mentre la ragazza s’interroga sulla loro relazione, la coppia comincia a essere vittima di episodi sempre più inquietanti e sinistri.

Alcuni commenti online hanno definito il film incomprensibile. Ma in realtà, Kaufman salvo un utilizzo molto particolare e ambiguo della voce narrante, interpretata da Lucy (che ricorda il romanzo di Agatha Christie L’assassinio di Roger Ackroyd), mostra fin da subito, partendo da alcune sequenze che riproducono il cosiddetto “effetto Kulesov” (una tecnica di montaggio per la quale la sensazione che un’inquadratura trasmette allo spettatore è influenzata dalle inquadrature precedenti e successive) il senso della sua storia, salvo immergere lo spettatore in un intrico di metafore, simbolismi, ricordi  e rappresentazioni oniriche tratti da libri, film (non siamo forse fatti per il 95% dei film che abbiamo visto?) e persino dipinti, tale da non poter che confondere il pubblico circa l’effettivo senso della pellicola, in realtà ben poco ambiguo se paragonato, ad esempio a quelle del già citato David Lynch, ma “celato in bella mostra” talmente bene che lo spettatore non può che restare sbalordito nel momento in cui comprende di stare assistendo a un conflitto interiore tra realtà e desideri che trova il suo epilogo nel finale, letteralmente teatrale e ispirato al film A beautiful mind di Ron Howard, in cui giunge l’accettazione, pessimistica e materialista che i sogni e le speranze rimangono pur sempre una finzione che non riempie la solitudine e i fallimenti di una vita sprecata.   

Sempre Agatha Christie, diceva che in una trama gialla l’identità del colpevole deve essere semplice, quasi scontata e che il compito dello scrittore è quello di creare motivi per cui invece non possa essere stato lui. E Kaufman, riesce benissimo a fare questo con il significato del suo film, nonostante la lunghezza ragguardevole dell’opera e della mole di riferimenti culturali, impossibili da gestire per chiunque. Menzione di merito anche a Netflix per aver inserito nel proprio catalogo un’opera di notevole qualità artistica anche se non prettamente commerciale, che nelle sale avrebbe al massimo potuto aspirare a una permanenza della durata di un weekend.

Andrea Persi

 

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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