“Il tesoro della Sierra Madre” è un film del 1948, diretto da John Huston, adattamento cinematografico di un racconto di B. Traven, incentrato sulla vicenda di alcuni americani ridotti al vagabondaggio a Tampico, Fred Dobbs e Bob Curtin, interpretati da Humphrey Bogart e Tim Holt, che si trasformano in cercatori d’oro statunitensi, al seguito del vecchio saggio Howard (Walter Huston, il papà del regista), e trovano la loro fortuna, per poi finire travolti da timori e sospetti reciproci, perdendo tutto.
E’ il miglior lavoro di Huston, un grande ritratto del Messico d’inizio Novecento, sicuramente tra le più belle pellicole dedicate alla corsa all’oro. Si incontrano in esso la speranza, la frenesia, la follia, le prove che l’animo umano deve affrontare davanti ad un veleno così forte come la polvere d’oro. Disvela pure una avanguardistica interiorizzazione della frontiera che supera il contesto storico-geografico e la relazione dei personaggi con l’ambientazione.
Per il regista fu molto difficile portare a termine il suo lavoro. La gente di Tampico, dove furono girate molte riprese, mostrò ostracismo verso il film, considerava degradanti per il Messico certe scene e l’atteggiamento che i suoi connazionali avevano nel film. In particolare si assistette ad una vera e propria rivolta quando, nel tentativo di presentare il porto di Tampico come era ad inizio secolo, il regista pensò di raggrupparvi mendicanti dai panni laceri, sporchi e ubriaconi. Dovette intervenire l’autorità locale che fermò le riprese e sequestrò il nastro già girato.
Bisognò interpellare addirittura il Presidente del Messico e chiarire che non c’era alcun aspetto offensivo nella pellicola. Qualche problemino John Huston lo poté superare anche grazie alla consulenza tecnica di un certo Hal Croves, agente di Traven, che in realtà non era che Traven stesso.
Lo scrittore amava l’anonimato, l’incognito, non voleva la fama, forse era un immigrato tedesco, forse un ricercato politico, così non si sa quando sia nato, né quando sia morto, ogni particolare della sua vita è dubbio. Era un personaggio singolare e burbero, eppure a lui si devono alcuni dei migliori romanzi della letteratura messicana (Il ponte nella giungla, Speroni nella polvere, La ribellione degli impiccati…).
Ne valse la pena perché John Huston fece il pieno di riconoscimenti: vinse un Oscar e un Golden Globe come miglior regista e un secondo Oscar come migliore sceneggiatura; “Il tesoro della Sierra Madre” ottenne un Golden Globe come miglior film drammatico; suo padre prese l’oscar e il Golden Globe come miglior attore non protagonista. Altra chicca è che lo stesso regista appare nel film nel ruolo dell’americano vestito di bianco che più di una volta dà dei denari a Dobbs, ancora mendicante.
Le immagini in bianco e nero rendono a pieno il senso del sudore, della polvere, del sole che acceca. La telecamera imprigiona l’avidità, le paranoie dei protagonisti, le loro sconfitte morali, lo stress mentale. Bogart è perfetto, cencioso, logoro, nevrastenico, con addosso espressioni tese e spigolose, è l’uomo che si entusiasma nel soggiogare suo fratello in nome della ricchezza. Arriva al punto d’accusare il suo amico di voler rubare i suoi sacchi di polvere e lo sfida a non dormire per stare all’erta. E’ lui poi ad aggredirlo sino a ritenerlo morto ed a rubargli l’oro. Non si rende conto di andar incontro alla morte, morale, prima che fisica. E’ anche la sua stessa follia però a mostrare ai suoi compagni quanto possa essere fugace la ricchezza e quanto, infine, poco importi.