Quando ha otto anni, Irene (Aurora Giovinazzo), vede (o meglio non vede, ma per il regista è lo stesso) suo padre morire a causa di un pirata della strada che fugge. Dieci anni dopo la giovane è un’adolescente problematica (leggi: una str….za ninfomane che si sfoga dandola a tutti) che, abbandonata la scuola e la madre, finisce per uno scherzo del destino a lavorare nella fabbrica di Michele (Lorenzo Richelmy), l’omicida del genitore, il quale, avendola riconosciuta e nel tentativo di redimersi in qualche modo, cerca di aiutarla, cominciando però a sentirsi attratto da lei.
La pellicola di Gianluca Mangiasciutti, nelle intenzioni dovrebbe essere un dramma con risvolti di thriller psicologico ma, per parafrasare Mike Bongiorno, cade proprio sullo psicologico. Con personaggi che sembrano usciti da un libro di Federico Moccia (che potremmo intitolare, “Scusa se ti chiamo pirata della strada”) e che dimostrano la maturità di un paio di tredicenni nemmeno molto svegli, il loro avvicinamento che occupa praticamente l’intera storia, mentre sottotrame più interessanti come l’ambiguità sulle cause dell’incidente o il rapporto tra Irene e la madre vengono sbrigativamente liquidate, risulta grottesco se non involontariamente comico.
Lei è disposta a concedersi (di nuovo) per uno straccetto che sembra raccattato su una bancarella dopo una sbronza in birreria, lui a lasciare la moglie dopo che Irene gli ha suggerito il nome per il ristorante che sogna di aprire (che a questo punto si poteva chiamare “Da Michi al curvone”), entrambi si nascondo dopo aver fracassato il vetro di un camion giocando a racchettoni nel parcheggio del fastfood dove vanno a farsi i c….i degli ignari avventori. Romanticismo da supermercato, insomma, che fa quasi rimpiangere i lucchetti di Ponte Milvio o i cuoricini sul diario di Laura Chiatti e che mette i brividi per la sua stucchevolezza più della finale e catartica (anche perché il pubblico che capisce che il film sta per terminare) corsa in auto.
Del resto fin dalle prime sequenze si nota una realizzazione alquanto sciatta: Irene da bambina fa pipì nel bosco senza abbassarsi i pantaloni, la saggia e più anziana collega, interpretata dalla brava attrice tedesca Marit Nissen, le dice di fare attenzione al rumore sul posto di lavoro che poi non si sente mai, Michele è identico sia da adolescente che da uomo adulto è via di seguito.
Pellicola nata con un’intrigante idea di partenza, sviluppata però pessimamente anche se non per colpa dei due bravi protagonisti che fanno quello che possono per tenere in piedi questa specie di casa fatta di trucioli la cui morale sembra essere “mi hai rovinato la vita, uccidendo mio padre, ma sei pur sempre un gran fico”.
Andrea Persi