Albert Lewin considerò sempre “The Picture of Dorian Gray” il suo capolavoro. Lo girò nel 1945, affiancandosi ad un inesperto Hurd Hatfield nei panni del protagonista. Il film ricevette un Academy Award per la migliore fotografia in bianco e nero, diverse nomination agli Oscar e un Golden Globe.

La celebre opera di Oscar Wilde, il racconto di un aristocratico inglese che manteneva il suo aspetto giovanile mentre il suo ritratto veniva corroso dai segni dell’età e dalle brutture dell’anima, divenne nelle mani di Lewin un lungo incantesimo, un’ipnosi, il dramma di un’angoscia penetrante. Legatissimo nelle sue pellicole a dipinti e statue, con questo titolo si rese partecipe della rielaborazione surrealista della controversia marxiana sulla creazione artistica.

Nei primi minuti, si penetra oltre un sipario, si entra tra le pesanti tende della casa del pittore Basil Hallward (Peter Lawford), dimora barocca, carica di arazzi, poltrone, bronzi e quadri, vissuta da artisti e circondata da un ampio giardino, colmo di piante e popolato da farfalle, insetto simbolo della primavera. Qui, in compagnia di Lord Henry (George Sanders), un gentiluomo cultore dell’ozio e nostalgico della giovinezza andata, Dorian Gray scopre il ritratto commissionato e, in un’istante, diventa ostaggio dell’ossessione che il tempo avrebbe corroso il suo corpo. I suoi occhi vengono rapiti in un’estasi inafferrabile e pronuncia la sua condanna: “Se potesse accadere il contrario, io rimanere sempre giovane e il ritratto invecchiare…”. Questo desiderio, espresso con ardore davanti alla statua di Bast, divinità egizia dalle sembianze di gatto, muta inavvertitamente la sua vita. La vanità apre presto la sua anima a tutti le altre immoralità.

L’amore per una cantante, Sibyl Vane (la giovanissima Angela Lansbury che si guadagnò il Golden Globe), si trasforma in un gioco crudele di cui si stanca presto, ma comunque troppo tardi per strappare la donna al veleno. Con spavento nota le prime metamorfosi del quadro, un’esile contrazione delle labbra, un accennato aggrottarsi della fronte, un impalpabile ombra nelle pupille, un sottile deterioramento della pelle. Scioccato nasconde il ritratto alla vista di tutti e rinuncia ad ogni compagnia, cadendo nei vizi d’una vita edonistica, dissoluta, malvagia. Nei primi anni tutti notano l’immutata giovinezza, nessuno però si insospettisce. Nessuno può immaginare che il freddo Dorian ospiti il male sotto le sembianze incorrotte dal tempo e restar giovane mentre sul suo spirito incombe la minaccia della dannazione. Poi le cose cambiano e in quella stanza della sua enorme villa vittoriana, sempre deserta, il quadro continua a mutare, invecchiando e corrodendosi come si corrode la sua anima, peccato dopo peccato, fino a marcire in una ripugnante mostruosità di sangue quando uccide Hallward. La purezza perduta è rappresentata dai giocattoli abbandonati nella stanza che occulta il ritratto, teatro dell’omicidio. E quando Dorian si rende conto che recuperarla è impossibile, non gli resta che pugnalare la tela.

Impreziosiscono la pellicola leggere divagazioni sulla trama originale, assieme a eleganti accenti d’orientalismo e citazioni letterarie. Con questi elementi Albert Lewin spinse la pellicola alla ricerca di una forma di simbiosi col surrealismo. Da un po’ di tempo frequentava il pittore Man Ray, giunto ad Hollywood dopo la fuga dalla Francia in guerra, e indubbiamente fu influenzato dalla corrente. Certi dettagli nell’uso delle luci lo evidenziano bene: generano sensazioni di terrore i continui passaggi tra oscurità e luminosità, mentre le oscillazioni di lampade urtate suggeriscono la lotta tra bene e male che si combatte nel protagonista. Se l’intero film è in bianco e nero, spicca invece il colore nelle inquadrature dei due ritratti – quello di Henrique Medina e quello disgustoso di Ivan Albright. L’espediente enfatizza la sconvolgente trasformazione di Gray e rende anche l’opera assoluta dominatrice del film, riflesso e tuttavia protagonista delle vicende che sciorinano un’assurda e soffocante indagine sull’alienazione dell’uomo nell’opera d’arte.

 

 

 

 

Angelo D’Ambra

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Angelo D'Ambra
Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.
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Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.

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