Anna Madden, una bambina, espulsa dall’aula scolastica, sviene nei corridoi della scuola e si ritrova a correre in aperta campagna verso una sinistra casa che ossessiona i suoi pensieri. Quando si riprende, tutto sembra un sogno, ma l’esperienza si ripete e la casa isolata nella campagna ricompare dopo un nuovo mancamento.
Il corpo assopito della bambina è rinvenuto dalla polizia e consegnato alla madre che ricorre immediatamente a un medico. Non sembrano esserci problemi, ma la sinistra casa continua a popolare i pensieri della piccola, i suoi ricordi e i suoi sogni. All’ennesima visione conosce Marc, un ragazzo infermo, segregato all’ultimo piano della casa. Queste esperienze vengono messe su carta dal tratto d’una matita che si fatica a cancellare e Anna riesce a stabilire una relazione dialettica tra ciò che sogna e ciò che disegna.
“La casa ai confini della realtà” di Bernard Rose è un angosciante dramma psicologico di produzione britannica, basato su “Marianne Dreams”, un romanzo di Catherine Storr. Anna è interpretata da Charlotte Burke, Marc da Elliot Spiers. È insieme un’indagine surreale sul rapporto tra percezione e creazione, una metafora del potere dell’arte di generare relazioni empatiche, ma anche la denuncia del dramma della solitudine. L’inquietudine che fa da sfondo alla narrazione, infatti, è l’eco dell’emarginazione di Anna che disegna un suo mondo irreale, sprofondando inconsapevolmente proprio nell’isolamento da cui fugge.
Il paesaggio spoglio dei suoi sogni è una proiezione onirica della sua solitudine, la casa che vi compare traduce il bisogno di relazioni e Marc è l’immagine di un bambino reale di cui sente parlare dal suo medico. Per lui la protagonista tratteggia scale, giocattoli, cibo, coperte. Anna si convince di poterlo aiutare fornendogli, col disegno, ciò di cui ha bisogno per guarire e star bene. Persuasa d’avere un grande potere nella sua matita, la bambina si rende invece prigioniera di un vero e proprio incubo. Spicca la scena in cui vengono setacciate le buste della spazzatura per trovare il quaderno dei disegni a palesare la sua ossessione incontrollabile.
Per quanto possa risultare ostico e contorto al grande pubblico, Paperhouse riesce nella rielaborazione della trasfigurazione fantastica senza sfruttare i cliché del classico gotico e orrifico. Per esempio fa a meno della voce narrante, di una prosa lirica e persino di ogni elemento chiarificatore. Rose sfrutta al meglio il lavoro della scenografa Gemma Jackson e del direttore della fotografia Mike Southon, affinando le spigolature e diradando al momento giusto le nebbie kafkiane che accartocciano la trama. Campeggia su tutto la fotografia dai colori crepuscolari, colpiscono le note del “Requiem” di Faure e l’organo gotico come colonna sonora delle scene fondamentali.
La meticolosa concatenazione di fatti reali e immaginari, si incupisce quando Anna accoglie nei sogni il padre ex-alcolista scomparso. La creazione allora le sfugge di mano e il viaggio nel sogno diventa spaventoso. Un maniaco violento, col viso deturpato, inizia a perseguitarla nella casa che lei stessa ha creato e da cui non riesce più ad uscire.