Di Andrea Persi

Un vecchio luogo comune del cinema ci dice che la pellicola successiva di un regista di un film di successo, è puntaulmente meno valida, se non disastrosa. Esempi possono esserlo l’ ”Hannibal” di Ridley Scott, girato dopo “il Gladiatore” e definito senza peli sulla lingua una “merda” dal nostro Nino Manfredi, ospite all’anteprima italiana o, per restare in Italia, il disastroso “Pinocchio” di Begnini diretto dopo il successo internazionale de “La vita è bella”

Sia come sia, il fresco premio Oscar Alejandro González Iñárritu non si tira indietro dal tentativo di bissare il successo di Birdman, cimentandosi in un film del tutto diverso dal precedente, ambientato tra gli indiani e i cacciatori di pellicce nel Nord Dakota del 1823.

La trama è, in effetti, piuttosto semplice. Una spedizione americana viene attaccata dagli Indiani Arikara e quasi decimata. I pochi superstiti accompagnati dall’esperta guida Hugh Glass e dal figlio, avuto da una donna indiana della tribù dei Pawnee, cercano disperatamente di far ritorno a Fort Kiowa, inseguiti dai nativi. Sulla via del ritorno Glass viene ferito da un orso e lasciato indietro col figlio e due membri della spedizione. Tradito e abbondanto da uno di loro, il perfido e psicopatico John Fitzgerald, Glass intraprenderà una lunga e solitaria marcia, anche metaforica dalla morte alla vita, per vendicarsi.

Iñárritu ci consegna un’opera di grande impatto visivo e drammatico, con dialoghi ridotti al minimo indispensabile (il protagonista Di Caprio parla si è non per una ventina di minuti in un film di quasi 3 ore) e in cui ci sono diversi richiami alla bellissima pellicola “The Tree of Life” diretta da Terence Malick.

Anche in the Revenant l’ambiente circostante è messo constantemente in rilievo, divenendo quasi una sorta di coprotagonista, attraverso l’uso di campi lunghi o dei primi piani dei boschi, delle montagne e degli impetuosi corsi d’acqua ripresi spesso, come le costanti immagini degli alberi dal basso in alto, in maniera tale da meglio sottolineare la piccolezza dell’uomo rispetto al paesaggio.

Allo stesso modo pure  in questa pellicola possiamo osservare una sorta di dualismo fra chi ha rispetto per la vita ed incarna la Grazia, Hugh Glass e chi invece incarna la Natura che vuole dominare con violenza, rappresentata dal personaggio di John Fitzgerald. Però a differenza dalla pellicola di Malick l’ambiente rappresentato da Iñárritu è privo di innocenza e benevolenza ma è anzi brutale e ostile perfino verso chi lo rispetta. Insomma, più una sorta di albero della morte più che della vita.

La tecnica registica comunque è esemplare con primi piani sbilenchi, un po’ alla Welles, che rendono bene l’idea dello stato di alienazione dei protagonisti, calati in un ambiente che mette a dura prova il loro fisico e la loro mente e che contribuiscono a creare un’atmosfera quasi onirica e con l’utilizzo di piani sequenza (o meglio dei long takes) nelle scene d’azione in cui la soggettiva si sposta all’ultimo istante, ad aesempio dallìinseguito agli inseguitori, aumentando la tensione narrattiva e l’aspettativa del pubblico.

Iñárritu  che si diverte anche a citare se stesso, piazzando nel film la stessa cometa di Birdman, non evita però alcune sbavature come Glass che, almeno in due occasioni spara due colpi di fila con la pistola a pietra focaia senza ricare o che ritrova i vestiti miracolosamente asciutti dopo una tormenta di neve. La pellicola, peraltro, si dimostra lenta e prolissa nella parte centrale finendo, a tratti, con l’annoiare e, volendo proseguire il paragone col film di Malick, si può dire che ciò accade perché, mentre il regista texano tiene viva l’attenzione dello spettatore con una trama non lineare e non convenzionale, Iñárritu ne propone una fin troppo scontata da apparire banale e che quindi fatica a reggere la lunghezza della pellicola. Senza voler dare consigli ad uno che certamente ne capisce più di chi scrive, un ben diverso impatto vi sarebbe stato se il film fosse iniziato con la “resurrezione” di Glass per affidare poi ai flashback il racconto di ciò che gli era accaduto.

Il tutto è immerso nei chiaroscuri della belissima fotografia di Emmanuel Lubezki (che ha già curato quella di Birdman oltre che, appunto quella di  The Tree of Life) che contribuisce a rendere ancora maggiore il senso di irrealtà del ambiente, mentre La musica del trio Ryūichi Sakamoto, Carsten Nicolai, Bryce Dessner offre un valido supporto sinfonico alle diverse scene, descrivendo efficaciemente la disperazione, il dolore, la frenesia della vendetta.

Passando agli interpreti e rischiando di deludere le molte fan del nostro Leonardo Whilem Di Caprio c’è da dire che egli ci offre un’intepretazione sicuramente valida ma inferiore al passato (in primo luogo a quella in “The Wolf of Wall Street”) e certamente non da premio Oscar, anche se in un campionato mediocre non necessariamente vince la squadra più forte ma quella meno scarsa. L’attore californiano è certo da ammirare per la “fisicità” del ruolo che interpreta e per come riesce a comunicare allo spettatore la diversità del redivivo, che ancora porta con se le tracce dell’altra parte (si pensi alle ripetute visioni di Glass) rispetto ai viventi, ma non è altrettanto efficace nel comunicare il dolore o il desiderio di vendetta che lo tengono in vita, che non possono certo essere ridotti all’ imbrattare le rocce del Nord Dakota col nome di chi lo ha tradito.

Tom Hardy, che interpreta proprio il traditore Fitzgerald, si dimostra, invece, perfetto nell’ incarnare tutta la gamma di emozioni del suo personaggio come l’avidità, la paura di essere scoperto, il disprezzo per i nativi ritenuti dei selvaggi, compresi il figlio meticcio di Glass e Glass stesso perché si è unito ad un’indiana. Un’intepretazione che lo mette in prima fila per l’Oscar come miglior attore non protagonista che, a mio parere, potrebbe essergli conteso solo dal connazionale Mark Rylance de “Il Ponte delle Spie”. Più “indietro” ma comunque credibili nelle loro intepretazioni abbiamo Domhnall Gleason, nel ruolo del capitano Andrew Henry e Will Poulter nei panni del giovane cacciatore Jim Bridger, mentre Lukas Haas, che tutti ricordiamo da bambino in “Witness-Il testimone” e che è diventato un po’ il Mario Castellani di Leonardo Di Caprio, presente in tutti i suoi film, fa una piccola parte del ruolo del cacciatore Jones.

In sostanza the Revenant è certamente un ottimo film, a parte le pecche di cui si è detto, ma non sembra tale da permettere il bis al regista di Birdman, almeno non per il miglior film poiché  “La Grande Scommessa”, malgrado la trama necessariamente tecnica appare molto più coinvolgente e scorrevole, anche se gli artifici tecnici di Iñárritu gli fanno certamente guadagnare punti per la migliore regia.

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“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey

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