Probabilmente tra le tante perle del mare di produzioni italo-spagnole finite nel dimenticatoio, “Due croci a Danger Pass” è una di quelle più lucenti. Il suo segreto è una intelligente sequenza di colpi di scena, una buona trama e un buon lotto di attori in cui spicca, Peter Martell, ovvero Pietro Martellanza.

 
Il nostro nacque a Bolzano nel 1938 e si spense nella città natia nel 2010, dopo una bella carriera che toccò l’apice tra gli Anni Sessanta e Settanta per poi piombare nell’oblio.
 
Passò dal lavare i piatti sui mercantili del Mare del Nord alle passarelle di Mister Italia sino ad approdare a Cinecittà in una vorticosa ascesa. Esordì nel 1963, con Totò in “Il comandante” di Paolo Heusch, proseguì in “La violenza e l’amore” di Adimaro Sala e tante piccole particine, spesso non accreditate. Nel 1966 fu in “Due once di piombo”, western di Maurizio Lucidi, e nello sci-fi di Margheriti “Il pianeta errante”. Iniziò lentamente a ritagliarsi maggior spazio ottenendo ruoli secondari in “Il cobra” di Sequi, “I lunghi giorni dell’odio” di Baldanello e “Dove si spara di più” di Puccini.
 
Finalmente nel 1968 divenne Alex Mitchell, il protagonista di “Due croci a Danger Pass”, western di Rafael Romero Marchent. Nei cinema il pubblico conosceva un nuovo eroe.
 
Lo apprezziamo in “Lola Colt” come compagno della Falana e in “Chiedi perdono a Dio… non a me”, di Vincenzo Musolino, poi Romero Marchent lo rivolle come protagonista, stavolta nei panni del capitano nordista Alan Bligh in “Ringo, il cavaliere solitario” del 1968. Lo stesso anno affiancò Dean Reed in “Dio li crea… Io li ammazzo!” di Paolo Bianchini, ma soprattutto fu di nuovo protagonista assoluto in un western, “Il lungo giorno del massacro”, di Alberto Cardone, in cui fu lo spietato sceriffo Joe Williams.
 
Per Lucidi lavorò di nuovo in “Probabilità zero”, per Baldi in “Il pistolero dell’Ave Maria”, per Enzo Barboni in “Ciakmull”, per Demofilo Fidani in “Era Sam Wallash!… Lo chiamavano… E così sia!” con Robert Woods e Gordon Mitchell. Con stesso regista rivestì i panni di protagonista nel western “Il suo nome era Pot”, codiretto con Lucio Dandolo.
 
Ormai le sue qualità erano riconosciute. I registi lo stimavano, sapevano che avrebbe potuto ottenere molto di più. Si sa doveva lui essere Cat, in “Dio perdona io no”, accanto a George Eastman (poi sostituito da Bud Spencer), ma durante un litigio con la fidanzata si ruppe un piede e involontariamente ciò lanciò Terence Hill. Lo ritroviamo invece nei gialli “Casa d’appuntamento” di Merghi e “La morte accarezza a mezzanotte” di Ercoli, con Gemma, Palance e Ursula Andress in “Safari Express” di Duccio Tessari e in “Deserto di fuoco” un film d’avventura con Edwige Fenech. Fu pure protagonista del western comico “La pazienza ha un limite… noi no!” di Franco Ciferri. Nella pellicola affiancò Salvatore Borgese in una riproposizione del “modello Bud Spencer e Terence Hill”. Il risultato non fu granché.
“Troppo amante della libertà”, disse il produttore Manolo Bolognini, che pure avrebbe voluto farne un nuovo Franco Nero. Le possibilità c’erano. Maurizio Lucidi ricordò, non aveva fatto accademia, non aveva studiato, “la faccia era era interessante… era un attore naturale”. Con la fine degli spaghetti western, si concluse anche il grande sogno cinematografico di Peter Martell, che finì a vivere di stenti, in un furgone, tentando persino il suicidio.
 
Questa storia la raccontò Fabrizio Favro nel documentario “Starring Peter Martell”, nel 1997.

 

 
 

 

 

 

Angelo D’Ambra

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Angelo D'Ambra
Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.
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Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.

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