Scampato al massacro della sua famiglia ordito dal Barone Harkonnen (Stellan Skarsgård) e dall’imperatore Shaddam IV (Christopher Walken) il giovane Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson), cercano di trovare il loro posto all’interno della tribù dei Fremen, in attesa da secoli di un liberatore, il Lisan Al-Gaib, che li conduca al dominio dell’universo, mentre il potente Ordine del Bene Gesserit continua a tramare per trovare il Kwisatz Haderach, l’essere supremo.

Chi conosce il Cinema di Denis Villeneuve sa che il regista canadese sa destreggiarsi meglio tra i temi della fantascienza “soft” in cui sono centrali le speculazioni sociologiche o psicologiche all’interno di un ambiente futuristico (vedi The Arrival o Blade Runner 2048) piuttosto che nella fantascienza cosiddetta “hard” in cui al centro della narrazione ci sono la tecnologia  il rigore scientifico (si pensi ai libri di Arthur C. Clark).  

Tuttavia in questo sequel, pur avendo a disposizione un’opera di fantascienza soft celeberrima (in si parla di fede, fanatismo, poteri psichici, guerre sante, intrighi politici e giochi di potere) il regista sembra smarrirsi nella storia, utilizzando le quasi tre ore a sua disposizione (che in teoria dovrebbero raccontare circa la metà del libro) per scene ridondanti come il “ballo del qua qua” dei Fremen nel deserto per evitare i vermi della sabbia, le ossessive cavalcate sui medesimi (peraltro tristemente copiati dal sarlacc di Star Wars), i noiosi intermezzi amorosi tra Paul e Chani (del resto sono i giovani attori più fighi del momento, no?), le auto compiaciute citazioni per far vedere che si conosce il libro (“vedete ho pure messo Gurney Halleck che strimpella”), mentre vengono tagliati eventi importanti come la Gilda Spaziale, intravista di sfuggita solo nel primo film, il figlio di Paul e Chani e l’imperatore (interpretato dal mitico Christopher Walken) viene ridotto in un vecchietto svampito per enfatizzare come il vero potere sia detenuto surrettiziamente dalle donne.  

Anche il destino di Paul di essere, suo malgrado salvatore e distruttore dell’universo nello stesso tempo e il ruolo della sorellanza del Bene Gesserit, (Piccola digressione: come nel film del 1984 in cui era interpretata da Silvana Mangano anche in questa versione la Reverenda Madre Ramallo è un attrice italiana ossia Giuseppina Merli, famosa per il ruolo della “Santa” ne La grande bellezza  di Paolo Sorrentino) sono eventi che vengono privati di logica (il nostro dopo 2 ore di tentennamenti compie la scelta finale non si capisce bene  perché) assieme ad altre sequenze  in cui regna sovrana la discontinuità narrativa (Paul e Chani sono nel deserto affinché il primo superi la prova del “ballo del qua qua” e un attimo dopo sono ad attaccare gli Harkonnen, che ovviamente hanno una mira “becalina” oppure la migliore amica di Chani è con lei ma subito dopo la troviamo alla mercé degli Harkonnen).

Un po’ di conforto viene dalla recitazione di Timothée Chalamet, Zendalaya e della new entry Austin Butler nel ruolo dello spietato Feyd-Rautha Harkonnen (ruolo reso iconico da Sting nel 1984) e in qualche sequenza ben riuscita nel finale (come il duello tra i due antagonisti purtroppo rovinato da un epilogo demenziale) mentre tutto il resto è convenzione e noia.

Qualcuno ha già scritto qualcuno “nessuno come Villeneuve è in grado di usare la macchina degli studios americani”. Se è vero, questo serve a poco se la direzione la decide sempre lo show business che pretende personaggi banali e storie standardizzate.

Andrea Persi

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giubors
“Chi ride al cinema non guarisce dalla lebbra, ma per un'ora e mezza non ci pensa.” di Jim Carrey
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