Quando ci si riferisce alla ‘trilogia’ di Indiana Jones si pensa sempre ai primi tre storici capitoli usciti nella decade degli anni ’80: I predatori dell’arca perduta (solo dopo rititolato Indiana Jones e i predatori…, ma i puristi storcono il naso), Indiana Jones e il tempio maledetto, Indiana Jones e l’ultima crociata.
Per molto tempo è stato così, con al massimo qualche concessione all’universo espanso come il popolare videogioco Indiana Jones e il destino di Atlantide, da molti ancora considerato come il “vero quarto capitolo” del franchise.
Poi però sono arrivati altri due film: Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, sempre diretto da Steven Spielberg e concepito assieme a George Lucas come gli originali, e l’ultimo Indiana Jones e il quadrante del destino, che della vecchia guardia vede tornare in sostanza solo il protagonista Harrison Ford, è realizzato totalmente sotto l’egida della Disney e come tutti sanno vede al timone un altro regista, James Mangold, dallo stile completamente diverso.
Dato che si tratta verosimilmente dell’ultima apparizione di Ford con la frusta e il Fedora, in molti si sono chiesti perché non procedere con due film girati back-to-back (pratica ormai diffusissima, da Il signore degli anelli in poi, pensiamo a Matrix, a Kill Bill, al recente Spider-Man: Beyond the Spider-Verse oppure a… Ritorno al Futuro II e III, come antesignano) per completare almeno un’altra trilogia.
E invece no. Cinque. Numero imperfetto che più imperfetto non si può: perfino la parola “pentalogia” suona male… e quindi?
E quindi consoliamoci pensando che almeno si possono scegliere su Indy tre trilogie, facendo partire la conta da ciascun capitolo. Qui ci divertiamo a considerare come “trilogia” a sé stante gli ultimi tre capitoli della saga, visione insolita ma interessante, perché acquisiscono un senso tematico proprio, tutto votato al tema della famiglia.
Tema per la verità anticipato anche dal Tempio, dove Indy, il suo figlio putativo Shorty e la bella Willie vengono a costituire proprio una famiglia atipica.
In Indiana Jones e l’ultima crociata conosciamo i trascorsi dell’Indy giovane e il rapporto con suo padre, interpretato magistralmente da Sean Connery. Con quel prequel prima del sequel che apre il film su Indiana tredicenne, è un ideale punto di inizio.
Ne Il regno del teschio di cristallo è Indy a scoprire a sua volta, a sorpresa, la paternità biologica, confrontandosi con il figlio ribelle Mutt Williams, che avrebbe potuto fargli da erede e invece no.
Perché il personaggio e il suo interprete Shia LaBeouf non piacciono al pubblico, quindi Il quadrante del destino si affretta a levarli di mezzo con una manovra che farebbe invidia per goffaggine e faciloneria al celebre ‘cane Poochie’ dei Simpson e ci rende un Indy talmente afflitto dal senso di colpa, oltre che dagli anni, oltre che dai chilometri, da trasfigurare in un personaggio completamente diverso, in cui fatichiamo a riconoscere il baluardo della razionalità conto i fanatismi di ogni tipo – nazi, thuggee o comunisti, poco conta – che il professor Jones è sempre stato.
Questo Indy potrebbe essere nonno, ma non lo è, è solo un vecchio distrutto dalla vita e talmente egocentrico che non si farebbe problemi a mettere a rischio l’intero continuum spazio-temporale e il corso della Storia per una sua personale esigenza.
E ancora una volta, non accetta eredi – non ha funzionato con Mutt, perché dovrebbe con Helena? – riprendendosi comunque il cappello in ultima battuta, come un barone universitario che non vuole mollare la cattedra.
Andrea Guglielmino